È stato uno dei precursori della pop art, dell’arte concettuale, perfino della installation art, ma pochi avrebbero ricordato il nome di Ray Johnson se non ci fosse stata una retrospettiva delle sue opere questo mese in una delle più prestigiose gallerie d’arte di New York, quella di Richard Feigen a metà Manhattan.
Eppure questo mese ricorre il ventesimo anniversario della sua morte. La ragione di questa disattenzione nazionale è stata forse che Johnson, all’apice della carriera nel 1995, senza dire ciao a nessuno era saltato giù da un ponte a Sag Harbor ed era tranquillamente scomparso nuotando verso il mare. È una dissolvenza che ricorda quella di un genio italiano, il fisico Ettore Majorana, che si volatilizzò, perché nessuno lo vide suicidarsi, dal traghetto che lo stava trasportando in Sicilia. Ha collaborato con Fermi alla scoperta del neutrino, ma oggi ben pochi si ricordano di lui.
Tornando agli artisti, è anche il caso di chiedersi perché nessuno si sia ricordato mai, nè con commemorazioni nè tanto meno con mostre, di celebrare un altro straordinario scomparso, il grande pittore e scultore trasteverino del popolo romano Bartolomeo Pinelli, della cui morte ricorre proprio questo inverno il 180° anniversario.
Ecco la storia di come è finito. Se, a Roma, girate un po' intorno a Fontana di Trevi potete vedere la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, famosa soprattutto perché conserva in urne di ceramica le viscere di molti papi, in un’epoca, finita solo nel 1901, in cui i papi si era soliti imbalsamarli. In questa chiesa fu sepolto nel 1835 anche il povero Pinelli, morto per alcolismo a 54 anni. Il fatto è che quando, nemmeno un secolo dopo, andarono a ricercare la sua tomba i soci di un’associazione romanista che voleva interrompere il silenzio calato sulla sua memoria, sia la sua tomba che il suo cadavere erano scomparsi. Nessuno, nè il rettore dalla chiesa, nè il vecchio sacrestano, nè altri seppe dare spiegazioni. Così ci si dovette semplicemente contentare di affiggere una targa commemorativa.
Era il 1927. Fino a oggi, pochissimi vanno a leggere questa targa, e tra i pochi sono io, anche perché quando sono a Roma vivo lì a due passi. Ma le ragioni di quella totale sparizione, nè ai suoi ammiratori nel 1927, nè a me per quanto abbia chiesto, è stato mai possibile accertarle. La conclusione è che in questa chiesa dove si era abituati a trafficare con le spoglie dei papi, quelle di Pinelli sono stato puramente e semplicemente gettate via. È da notare che il “zor Meo,” come lo chiamavano, non era, già in vita, affatto nelle grazie dell’autorità papale. Tra l’altro per “inadempimento del precetto pasquale”, perchè, cioè, si rifiutava di fare la Comunione, che nella Roma papale era imposta al popolo almeno una volta l’anno per Pasqua. I trasgressori erano messi in una lista che veniva poi esposta alla deplorazione del pubblico nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola, e proprio un anno prima della morte Pinelli c’era stato incluso.
Questo artista, che ci ha lasciato una fantastica documentazione della Roma ottocentesca nei suoi innumerevoli disegni, sculture e stampe, è oggi famoso in tutto il mondo, ma all’epoca della morte lo conosceva solo una piccola cerchia di colleghi e di intellettuali. Tra questi il grande “poeta di Roma” Giuseppe Gioacchino Belli che già all’epoca della scomparsa di Pinelli dubitava molto, in un sonetto dialettale intitolato “La morte der Zor [signor] Meo”, che il pittore sarebbe salito in Paradiso.
Vorrei, per quel tanto che mi è dato di fare, a titolo di celebrazione nell’imminente anniversario della morte di Pinelli, riportare qui questo sonetto di Belli, che mette in scena un trasteverino mentre informa un amico della scomparsa del pittore:
Sì, quello che portava li capelli
Giù p’er grugno e la mosca ar barbozzale [la barbetta a mosca sul mento]
Er pittor de Trestevere, Pinelli.
È crepato per causa d’un bucale [un litro di vino].
V’abbasti [vi basti] questo, ch’er dottor Mucchielli,
Vista ch’ebbe la merda in der pitale,
Cominciò a storce [torcere la bocca] e a masticalla male,
Eppoi disse: “Intimate li fratelli.” [chiamate gli accompagnatori dei funerali].
Che aveva da lassà [che volete che lasciasse]? Pe fa’ bisboccia
Ner Gabbionaccio de padron Torrone,
E’ morto co’ tre pavoli [paoli] in zaccoccia.
E l’anima? Era già scummunicato,
Ha chiuso l’occhi senza confessione…
Cosa ne dite? Se sarà sarvato?
Il Gabbionaccio era un’osteria proprio a “Fontan de Trevi” (il nome derivava dall’insegna, di una gabbia con dentro un merlo), ma è inutile che la cerchiate: è scomparsa da tanto tempo anche quella.