Non sarà una giornata a cambiare le cose, a meno che l’attenzione al rispetto per i diritti umani sia costante nelle politiche dei governi di tutto il mondo e diventi cultura e fondamento della civiltà. Questo il messaggio che arriva dall’ONU nella Giornata dei diritti umani 2014, un evento annuale con cui le Nazioni Unite commemorano la data in cui l’Assemblea Generale ha adottato la Dichiarazione universale dei Diritti umani, firmata proprio il 10 dicembre del 1948 a Parigi, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Lo slogan scelto per la celebrazione di quest’anno è infatti Human Rights 365, con cui la High Commission for Human Rights (OHCHR ), che è a capo dell’organizzazione della giornata, ha voluto sottolineare la necessità che l’attenzione resti alta per tutti i 365 giorni dell’anno e che ogni cittadino del mondo, dovunque sia e in qualsiasi momento, sappia di essere titolare di tutta la gamma dei diritti umani.
Un appello che suona drammaticamente necessario alla luce dei fatti che in questi giorni stanno scuotendo l’opinione pubblica americana. Da un lato l’uso discriminatorio ed eccessivo della forza da parte delle autorità di polizia, dall’altra le rivelazioni sull’uso della tortura da parte della CIA durante gli interrogatori ai prigionieri sospettati di terrorismo. Due questioni che con i diritti umani hanno parecchio a che fare e che sono entrate di prepotenza nella giornata a questi dedicata.

Il lancio all’ONU dell’International Decade for People of African Descent
Quest’anno la Giornata dei Diritti umani è coincisa anche con il lancio dell’International Decade for People of African Descent, un’iniziativa internazionale per il riconoscimento, la giustizia e lo sviluppo delle popolazioni di discendenza africana. All’interno delle attività previste per il lancio del programma e alla vigilia della commemorazione della Giornata dei Diritti umani, il vice segretario generale delle Nazioni Unite, Jan Eliasson, martedì sera ha tenuto una lettura pubblica della Dichiarazione universale dei Diritti umani ad Harlem, storico quartiere afro-americano di New York. Un’iniziativa con cui l’ONU sembra aver voluto dare un segnale alla comunità nera di New York, dopo che la settimana scorsa anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, aveva ricordato che è necessario accertare le responsabilità delle forze dell’ordine nei recenti fatti di cronaca.
Nel suo messaggio di mercoledì per la Giornata dei Diritti umani, Ban Ki-moon è tuttavia rimasto nel tracciato, senza commentare né le proteste ancora in corso contro la polizia di New York, né il rapporto CIA sulle torture.
“Le violazioni dei diritti umani sono ben più che tragedie personali – ha detto il segretario generale ONU – Sono campanelli d’allarme che possono avvertire di una crisi molto più grande”. Ban Ki-moon ha anche spiegato che, a seguito di quegli “allarmi”, la sua campagna Human Rights Up Front, lanciata nel 2013, cerca di anticipare le violazioni prima che degenerino in atrocità di massa o in crimini di guerra, attraverso attività di formazione del personale, informazione agli Stati membri e di coordinamento del lavoro dei vari organi e agenzie delle Nazioni Unite.
Eppure le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno e sono ancora tanti i paesi in cui le libertà individuali sono limitate o violate dal limitato accesso alle risorse, da regimi totalitari, discriminazioni e violenze. Le minoranze (che siano etiiche, di genere, di religione o altro) del mondo subiscono quotidianamente abusi e limitazioni della libertà. E non soltanto nei paesi afflitti da crisi sistemiche come quelli del Medioriente, ma anche nelle nazioni democratiche, come ha dimostrato (semmai ce ne fosse stato bisogno) il rapporto sulle torture della CIA.
E proprio il rapporto CIA è stato, inevitabilmente, al centro dell’interesse dei giornalisti durante il press briefing giornaliero all’ONU, in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani. Più volte è stato chiesto al portavoce del segretario generale, Stéphane Dujarric perché Ban Ki-moon non avesse fatto una dichiarazione diretta sulle rivelazioni riguardanti i metodi di interrogazione della CIA. Dujarric ha evitato la domanda facendo notare che altre agenzie ONU si sono espresse a riguardo. La VOCE gli ha anche chiesto se il segretario generale consideri la pena di morte, sulla cui moratoria su voterà presto una risoluzione all’ONU, una forma di tortura e se ritenga, come sembra ritenere parte del Congresso americano, che l’efficacia – ancora da dimostrare – delle torture nello sventare piani terroristici possa giustificare quei metodi. Dujarric ha risposto ricordando che la posizione di Ban Ki-moon contro la pena di morte è ben nota e che il segretario generale reputa la tortura sempre e in ogni caso inammissibile.

Zeid Ra’ad Al Hussein, alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani. Foto: UN Photo/Jean-Marc Ferr├®
Messaggi più decisi sono arrivati dall’Alto Commissariato per i Diritti umani. In un comunicato stampa diffuso mercoledì a seguito della pubblicazione del rapporto sull’uso della tortura negli USA, cui si è aggiunto un equivalente rapporto pubblicato in Brasile dalla National Truth Commission (Comissão Nacional da Verdade), l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha invitato tutti gli Stati membri “ad agire in modo inequivocabile” per eradicare questa pratica. La data del 10 dicembre segna infatti anche il 30° anniversario dell’adozione della Convenzione contro la tortura. “Tuttavia – ha detto Zeid Ra’ad Al Hussein – come ha mostrato ieri l’US Senate Select Committee on Intelligence Report, la tortura è ancora in uso in un buon numero dei 156 paesi che hanno ratificato la Convenzione e che hanno una legislazione nazionale che rende illegale questa pratica”.
L’alto commissario ha poi elogiato Stati Uniti e Brasile per aver consentito la pubblicazione dei due rapporti ricordando che sono ancora troppe le nazioni che praticano la tortura con regolarità, ma si rifiutano di ammetterlo pur se messi di fronte all’evidenza dei dati forniti da organizzazioni internazionali o delle “cicatrici fin troppo visibili sulle vittime che riescono a scappare”.
Inserendosi anche nel dibattito nazionale sulla possibilità che i responsabili delle azioni documentate nel rapporto CIA vengano puniti (Obama sembra essere dell’opinione che, a patto di impegnarsi a evitare che in futuro atrocità del genere si ripetano, il passato è passato), Zeid Ra’ad Al Hussein ha affermato che non dovrebbe esserci impunità o prescrizione per questi “crimini internazionali”, aggiungendo che a coloro che hanno ordinato, reso possibili o commesso torture “non può semplicemente essere concessa l’impunità su una base di opportunità politica”. La presa di responsabilità per i crimini commessi è un obbligo per le Nazioni, ha spiegato ancora l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, chiedendosi come i due stati in questione abbiano intenzione di assolvere a questo dovere. Se non davanti al proprio congresso e ai propri cittadini, insomma, i colpevoli dovranno rispondere dei propri crimini davanti alla comunità internazionale. Secondo quanto affermato da Zeid Ra’ad Al Hussein, sarebbe dunque il diritto internazionale, che non garantisce alcuna immunità ai funzionari pubblici coinvolti in modo diretto o indiretto in atti di tortura, ad obbligare gli Stati Uniti ad assicurare i responsabili alla giustizia.