Non c’è chi non veda il paradosso insito nel celebrare oggi, primo maggio, una festa del lavoro e dei lavoratori in un contesto internazionale dove il lavoro o non c’è o è ipersfruttato. Nel primo caso, pensiamo soprattutto all’Occidente, all’Europa e all’Italia, dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli record; nel secondo caso pensiamo a realtà come quella cinese dove i lavoratori e soprattutto le lavoratrici che producono i beni che poi si riversano sui mercati occidentali – non merce scadente ma brand, marche come Nike, Adidas, Timberland – scioperano per ottenere diritti che si dovrebbero considerare acquisiti da un pezzo (pensiamo alla protesta che ha interessato in questi giorni la fabbrica Yue Yuen, di proprietà di un gruppo taiwanese, principale produttrice mondiale di scarpe da ginnastica, dove i datori di lavoro per 20 anni semplicemente non hanno versato i contributi per l’assicurazione sociale dei loro dipendenti).
Dunque, abbiamo da un lato un mondo in cui i lavoratori alcuni diritti fondamentali li hanno acquisiti, ma dove il lavoro è merce sempre più rara, e soprattutto sempre più precaria; e dall’altro un mondo dove invece il lavoro c’è ma spesso in assenza, o quasi, di diritti. Abbiamo un mondo in cui il lavoro che ancora c’è è molto costoso – e ciò spinge le imprese a delocalizzare, ad andare a produrre laddove il costo del lavoro è più basso – e un mondo dove emergono scandali come quello del gigante cinese delle scarpe griffate, dove l'azienda semplicemente si disinteressa della salute e del futuro dei suoi dipendenti, spalleggiata da uno Stato che (ironia della sorte) si definisce comunista.
Se vivessimo non nel migliore dei mondi possibili di cui parlava – ironicamente – Voltaire, ma almeno in un mondo passabilmente razionale, cercheremmo di percorrere una terza via. La vogliamo riassumere in uno slogan che puzza di veterosindacalismo, uno slogan che ci riporta a Bertrand Russel e alle sue generose utopie? “Lavorare meno, lavorare tutti”. E, aggiungiamo, lavorare a condizioni per tutti un po’ più decenti, visto che abbiamo degli organismi internazionali come l’ILO che degli standard li hanno fissati e dunque, non c’è niente che si debba inventare di sana pianta.
Invece non è così. Non è così per ragioni piuttosto scontate – la competizione internazionale – e per altre un po’meno scontate, ovvero il riequilibrio in atto, in sé e per sé naturale, prevedibile, “giusto”, fra un Occidente che per due secoli ha fatto il bello e il cattivo tempo e un resto del mondo che è rimasto al palo troppo a lungo, a fornire risorse, a fornire cash crops, a fornire materie prime ricevendo in cambio le briciole che il paternalismo coloniale e poi neocoloniale generosamente elargiva. Oggi le cose si stanno ribaltando e persino certi paesi africani – lo si è scritto anche su questa testata – viaggiano a percentuali di crescita del PIL che l’Europa si è scordata da un pezzo (cosa di cui a onor del vero dovremmo rallegrarci se la sollecitudine che abbiamo dimostrato in passato verso il cosiddetto “Terzo mondo” era sincera).
A complicare ulteriormente le cose, il fatto che la ricchezza oggi non viene più prodotta principalmente dal lavoro, se con questa parola intendiamo la produzione reale di beni e servizi reali, ma dal mercato finanziario. Lo si sapeva già dagli anni ’80 del secolo scorso: ricordate come Mickey Rourke definisce il suo lavoro in un film-simbolo della nuova stagione che si profilava, 9 settimane e 1/2? “Faccio soldi con i soldi”. Tutto era già lì. Avremmo dovuto vederlo. E in effetti, forse lo abbiamo visto. E quello che abbiamo visto evidentemente ci è piaciuto, considerato che nei 30 anni successivi non abbiamo fatto altro che amplificare questo business, e continuiamo a farlo anche oggi, nonostante una crisi economica internazionale determinata in primis non dal debito pubblico degli stati ma dal fallimento di alcune grandi banche di investimento.
Festa del lavoro e dei lavoratori, dunque. Festa paradosso, festa che guarda indietro, ad un passato fatto di lotte sociali, di rivendicazioni di diritti sacrosanti ma inevitabilmente un po’ datati, nel mondo senza scampo della precarietà globale (per i giovani italiani e non solo italiani) e dell’ipersfruttamento globale (per le lavoratrici cinesi che confezionano le nostre scarpe da ginnastica).