Chi vive in una terra di confine, più volte contesa nel corso della storia, non può che provare interesse per vicende come quella della Crimea. Dunque vediamo: sarebbe considerato legittimo un referendum realizzato nella terra in cui vivo, l'Alto Adige, qualora gli abitanti, in gran parte di lingua tedesca, andassero a votare per il ritorno all'Austria (la vecchia "madrepatria") avendo già qui in strada i soldati austriaci, che tengono in ostaggio quelli italiani nelle loro caserme? Direi proprio di no.
Messa in questi termini, l'illegalità del referendum in Crimea è evidente, anche se il suo esito è stato abbastanza chiaro. La sovranità dell'Ucraina, di cui la Crimea è/era senza dubbio una parte – poco importa se in precedenza fosse stata "regalata" da Cruscev a Kiev – è stata palesemente violata dall'ingresso dei militari russi, o miliziani che fossero (visto che non portavano mostrine). Anche perché niente lasciava pensare che in Crimea si stesse preparando un genocidio o altre azioni tali da giustificare l'intervento della Russia.
Ma, per converso, è stata o meno illegale la stessa cacciata di Yanukovich, da cui la crisi ha preso il via? Su questo punto mi pare che il terreno sia più "molle". Di certo in condizioni normali non spetterebbe alle manifestazioni di piazza cacciare i governi, ma è anche vero che eventi come le numerose primavere arabe ci hanno da tempo abituati a questa modalità, che la comunità internazionale ha poi spesso apertamente avallato (e a volte anche appoggiato).
La cosa che ci interessa qui però è un'altra, ovvero: il referendum che ha sancito il ritorno della Crimea alla Russia è la cosa peggiore che poteva succedere? Di nuovo, la risposta è no: è stato illegale, come dicevamo. Ma non il peggiore degli eventi possibili. Perché se la situazione non degenererà, si potrà dire che questo è un caso, non troppo frequente, di secessione quasi indolore. C'è un precedente importante, in epoca recente: quello della Cecoslovacchia. Come si ricorderà, la Slovacchia si separò in maniera pacifica, con un referendum che Praga decise di non osteggiare: ne nacquero due stati distinti, la Slovacchia, appunto, e la Repubblica Ceca, che da allora hanno sempre vissuto in pace l'uno vicino all'altro. Ben diverso quanto accadde nei Balcani dove la dissoluzione dei vecchi confini della Jugoslavia avvenne in un lago di sangue e scoperchiò la pentola di rivalità non ancora sopite (quando mai tornerà la Bosnia Erzegovina ad essere uno stato normale?).
Un'ultima osservazione: che cosa distingue il caso, felice, della Cecoslovacchia, da quello jugoslavo? Nel primo, i due paesi nati dalla scissione volevano entrambi essere parte integrante dell'Unione europea, che dal canto suo non li ha ostacolati. Nel secondo, invece, si sono incrociate tensioni – e strumentalizzazioni – diverse: passioni slavofile contro altre filo-occidentali, rivalità etnico-religiose mescolate a memorie del passato abilmente manipolate dai signori della guerra e forse anche alimentate dall'esterno, interessi economici divergenti e così via.
La situazione ucraina al momento mi pare più simile a quella balcanica che a quella della Cecoslovacchia del buon Havel. Pertanto, anziché spingere sulle sanzioni e accentuare le spaccature sarebbe auspicabile lavorare per costruire "ponti" fra le due realtà – l'Ucraina e la Crimea ormai russa – chiedendo semmai a entrambe di dare precise garanzie su un punto: il rispetto delle minoranze. La cartina tornasole infatti è sempre questa: il trattamento che i vincitori riservano ai dissidenti e agli sconfitti.