L’Africa brucia ancora. Nel giro di pochi giorni, dopo un ulteriore e repentino avvitamento della crisi nella Repubblica Centroafricana (RCA), paese ormai in preda all’anarchia, è toccato al Sud Sudan, il nuovo stato che aveva visto luce solo nel luglio 2011 a conclusione di un lungo processo di pace. Neo-nato membro della Comunità Internazionale, il Sud Sudan concretizzava le aspirazioni di popolazioni ed etnie tra esse diverse per lingua ed appartenenza religiosa, ma tutte accomunate dall’insofferenza per il centralismo del Nord e dalla pretesa della “musulmana Khartoum” di imporre l’identità araba all’intero Paese. Un’ insofferenza giusitificata dalle periodiche repressioni e violenze perpetrate ai danni delle minoranze meridionali.
Nell’estate di oltre due anni fa, il Sud Sudan non nasceva solo come espressione geografica di una sofferenza da redimere. Per quanto necessaria, era una scommessa. Coraggiosa e pericolosa al contempo. Coraggiosa perchè sorgeva demolendo il principio caro alla costruzioni delle entità statali nel periodo post-coloniale. Quello dello uti possidetis juris, brocardo latino che sanciva l’immodificabilità e inviolabilità delle frontiere amministrative o coloniali dei Paesi di nuova indipendenza. Una formula di conservazione che mirava a congelare le artificiali demarcazioni territoriali architettate dalle potenze coloniali. E che fu però subito vista dalle diverse organizzazioni regionali africane come male minore, idoneo a neutralizzare possibili appettiti revisionistici ed espansionistici suscettibili di alimentare conflitti territoriali tra i nuovi Stati.
La natura pericolosa della scommessa Sud Sudan era la costruzione accelerata, ex-novo, sulle macerie di un conflitto ventennale, di uno Stato, di una classe politica e di un’amministrazione pubblica capace ed efficiente. Ingredienti necessari per la distribuzione dei dividendi della pace e la sostenibilità di un processo di State building che sostanziasse le ambizioni di autodeterminazione politica dell’eterogenea popolazione del Sud Sudan. Purtroppo, mentre la Comunità Internazionale dedicava tanta attenzione e diplomazia alla costruzione di relazioni costruttive e pacifiche tra i due Sudan – in gran parte legate alla definizione di un accordo per lo sfruttamento comune delle risorse petrolifere – la situazione al Sud ha cominciato a lanciare segnali preoccupanti.
Il governo di Juba – capitale del Sud Sudan – guidato dal presidente Salva Kiir, leader del braccio politico del movimento di liberazione Sudan’s People Liberation Army (SPLA), è stato accusato di favorire gli elementi dell’’etnia dinka nella distribuzione di incarichi e posti pubblici di rilievo. Sin dalla proclamazione dell’indipendenza, un risentimento crescente verso l’amministrazione di Juba ha accomunato pezzi consistenti dell’esercito e dell’amministrazione di etnia Nouer, ex elementi dello SPLA e di altri gruppi che avevano partecipato alla guerra contro Karthoum. Tra il luglio 2011 e la fine dello scorso mese di novembre, nella regione dello Jonglei, area in cui il malcontento verso Juba ha raggiunto livelli assai elevati, soprattutto nella popolazione giovanile, si contavano oltre 100mila sfollati per effetto di scontri e tensioni inter-etniche.
Il tentativo di colpo di stato orchestrato dall’ ex- president Riek Machar è stato tutto fuorchè inaspettato. A lanciare un gravissimo campanello d’allarme era stato peraltro, diverse settimane fa, l’impietoso rapporto di Trasparency International che aveva denunciato come il Sud Sudan, dopo la Somalia, fosse il Paese africano con il maggiore indice di corruzione. Dove corruzione e cattiva governance sono la regola, il conflitto è purtroppo inevitabile. Nel caso del Sud-Sudan assistiamo, poco sorpresi, alla conferma di una maledizione che vede molti Paesi ubriachi di petrolio – la nuova nazione dipende dall’esportazione dell’olio nero – essere affetti da deficit cronici in materia di efficienza ed efficacia della macchina statale, corruzione dilagante, ed alti indici di disoccupazione giovanile.
Tanto in relazione al Sud Sudan che alla RCA, questi ultimi giorni del 2013 suggeriscono l’urgenza di un riesame critico dei meccanismi nazionali e internazionali per la (ri)costruzione di Paesi reduci da conflitti. In entrambi i casi il tema della prevenzione di nuove crisi e instabilità, cioè di ricadute, non è stato messo a fuoco. La creazione e il rafforzamento, nel lungo periodo, di capacità adeguate nella gestione dei servizi pubblici e della macchina statale in due realtà post-conflittuali così fragili come il Sud Sudan e la RCA sono stati aspetti probabilmente trascurati. Nondimeno, la promozione di forme di partecipazione allargata alla cosa pubblica, la definizione di meccanismi di governance trasparenti, la trasformazione di movimenti di liberazione o guerriglia in partiti politici aperti e competitivi, cioè democratici, si sono rivelate sfide troppo complesse.
Le tensioni e le violenze a base religiosa ed etnica scoppiate in questi giorni in Sudan a RCA hanno sollevato lo spettro di un nuovo Rwanda. Uno spettro che è sembrato in parte scongiurato dalle reazioni ferme – anche se un po' tardive – assunte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La Francia ha messo faccia, uomini e nuovi soldi per arrestare le violenze a Bangui. Gli Stati Uniti – il vero deus ex machina nel processo di creazione del Sud Sudan – non potevano far altro che accompagnare il rafforzamento della presenza ONU nel Paese alfine di evitare l’ipotesi di un nuovo failed State in Africa orientale, un incubo che certicherebbe il disastro di quasi un ventennio di politica estera (bipartisan) di Washington nell’area.
Sconvolti dall’impatto emotivo delle violenze di queste settimane il primo pensiero è stato quello centrato sull’urgenza di una reazione: il dispiegamento di truppe, l’allestimento di corridoi umanitari, la protezione dei civili, l’assistenza degli sfollati e dei profughi, donne, vecchi e bambini. Tutto necessario certo, ma insufficiente. Perchè è la risposta ad un dramma già scoppiato. C’è invece una questione, quella dei giovani africani, che è la vera ticking time bomb che accomuna nella crisi e nell’instabilità molti Paesi africani, pur tra loro diversi. Qualcosa che si può prevenire. O quantomeno gestire. È la massa di giovani africani tra i 12 ed i 24 anni – oltre i 350 milioni, tra un decennio ragiungeranno il mezzo miliardo – generalmente disoccupati e sotto-occupati. Incazzati ed emarginati. Economicamente e politicamente.
Alcuni di loro, sembra in 20mila, sono in marcia verso la città di Bor, la capitale dello Jonglei, lo stato ribelle del Sud Sudan. E sono tutti armati. Da chi ha saputo strumentalizzarne la frustrazione e la voglia di riscatto in assenza dello Stato e nella disattenzione della comunità internazionale. La protesta contro la mancanza di opportunità per la costruzione di una vita libera dalla fame e dal bisogno, fondata sui diritti. Youth bomb walking, la bomba di giovani che cammina. È il quarto stato dell’Africa che Pelizza da Volpedo avrebbe disegnato su una tela per sintetizzare la questione sociale del continente nel XXI secolo.