Ci si può seriamente dolere di “un abuso di sovranità”, di “un’ossessione securitaria”, si può seriamente invocare “la regola”, per fronteggiare l’Alleato-nemico Stati Uniti, in un Paese come l’Italia, in cui si intercettano circa 180 milioni di “eventi telefonici” l’anno (conversazioni vere e proprie, messaggistica, localizzazioni), spendendo, nello stesso periodo, circa 280 milioni di euro? Si può seriamente istituire un paragone fra la ”regola costituzionale all’interno” e la “regola di diritto internazionale all’esterno”, invocandone il valore di presidio contro gli abusi, quando in Italia se ne consumano, fra gli applausi e gli sghignazzi (“cachinni”, direbbe Dante) di turbe umanamente frustrate ed elitès eticamente semianalfabete, tanti e tali da averci meritato, specie da Mani Pulite in poi, innumerevoli condanne proprio di enti ed istituzioni internazionali, come Amnesty International e Corte Europea?
A quanto pare, si può: basta dirigere “La Repubblica” e chiamarsi Ezio Mauro.
Regola costituzionale, dice. Ma quale regola della nostra Costituzione in particolare servirebbe da modello? Quella dell’art. 13, sulla libertà personale, il cui trattamento giudiziario all’ultimo forum di Davos ci è valsa l’equiparazione del nostro processo penale a quello del Rwanda? Preda sacrificale di uno stupro di stato che annovera una serie così ignominiosamente estesa di martiri (da ultimo, Silvio Scaglia, come ricordato su questo giornale da Valter Vecellio), da marchiarci di barbarie? O quella dell’art. 14, sull’inviolabilità del domicilio, magari secondo l’interpretazione elaborata per Arcore? O dell’art 15, sulla libertà e segretezza delle comunicazioni, rastrellate dalle scorrerie prima ricordate? O quella dell’art. 24, sul diritto di difesa, finito nel forno crematorio dei nostri processi senza fine, in cui si entra per non uscirne mai più? E mai che si sia potuto proporre un reale controllo, reale in quanto autonomo: cioè sottratto ad ogni azione penale “sindacale”, su quanto e come si lavora nei tribunali, senza sentirsi trattare come Gengis Khan? O dell’art. 27, sulla personalità della responsabilità penale, oltraggiata dai vari “non poteva non sapere”? O dell’art. 101, secondo cui i giudici italiani sarebbero soggetti soltanto alla legge, e, invece, secondo uno studio condotto dal Prof. Frank B. Cross (Ohio State Law Journal, giugno 2003), godono di una libertà così incondizionatamente arbitraria da risultare eguagliata solo da quella dei giudici iraniani? O dell’art. 112, sull’obbligatorietà dell’azione penale, sbeffeggiata senza ormai neanche ritrosia o residui di pudore? Magari un giorno ce lo diranno, questi sofisti in camicia bianca.
Ora il punto è che la NSA è un ente pubblico, un’istituzione. Che si muove sia in ambito interno che internazionale. Se nella valutazione delle attività interne della NSA si facesse ricorso ai metri di giudizio che tra il Palasharp e Largo Fochetti hanno adottato, nel “ventennio della legalità”, su usi e abusi della magistratura italiana, bisognerebbe avere solo il buon gusto di tacere, se addirittura non si avesse il fegato di applaudire entusiasti.
Quanto agli affari esteri, non c’è nulla da aggiungere a quanto, con l’onestà intellettuale che gli è consueta, ha rilevato su questo giornale Stefano Vaccara. Tutti spiano tutti. Cioè, il piano è diverso. I rapporti fra Stati sono rapporti fra interessi di centinaia di milioni di persone, di cui gli stati sono sintesi, più o meno riuscita. Questi rapporti si fondano su un principio elementare: quel che è mio non è tuo, e quel che tuo non è mio. Ne scaturiscono costanti tensioni verso un oggetto di volta in volta conteso, che ondeggiano su un equilibrio instabile. Procurarsi un vantaggio di conoscenze o, genericamente, di informazioni, non è altro che l’espressione contemporanea, e aggiornata allo stato della più avanzata tecnologia, di questa insopprimibile tensione. Sempre meglio delle bombe. Per i dubbiosi, chiedere ai nostri nonni. Oppure a qualche bambino mutilato da una mina antiuomo.
Ma anche a non ritenere diverso il piano interno da quello internazionale, sul terreno delle libertà fondamentali, come pare faccia il direttore de La Repubblica quando scrive di “regola costituzionale all’interno e regola di diritto internazionale all’esterno”, mi limito solo a far rilevare che, sulle intercettazioni, e, in generale, sulle frizioni fra interesse nazionale o sopranazionale (come in materia di terrorismo) e diritti individuali (per es. le c.d. extraordinary rendition), la Superpotenza statunitense è chiamata, fondatamente o meno, a rendere conto; la magistratura italiana è, semplicemente, legibus soluta.
Vale a dire: non è che sia “soggetta soltanto alla Legge”; non è soggetta neanche alla Legge. E con l’interessato e conclamato compiacimento di quelli come Ezio Mauro.
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