È di pochi giorni fa la rivelazione, dalle pagine del New York Times, di una nota interna diffusa in Aprile dal comitato centrale del Partito Comunista Cinese, che mette in guardia i suoi membri contro le sette insidie, di provenienza occidentale, che minerebbero la società cinese.
‘Documento numero 9’ è il nome del memo, che, come tutti i documenti top secret che si rispettino, porta anche lui un nome con una cifra all’interno – cifra di cui peraltro non si è ben capita la ragione. La presunta esistenza della circolare veniva già citata a Maggio scorso dall’agenzia italiana AgiChina24.
I mali da cui la Cina deve guardarsi andrebbero dalle nozioni d’indipendenza dei media e di società civile, all’universalità dei diritti umani, il neo-liberalismo, le critiche nichiliste al passato del partito e la contestazione del socialismo con caratteristiche cinesi. Molti di questi punti non stupiscono il lettore occidentale né probabilmente avranno stupito i quadri del PCC cui sono stati sottoposti. È infatti cosa nota che in Cina la società civile fatichi a far sentire la sua voce o che i media debbano attenersi alle direttive del partito, pena la censura.
Il punto probabilmente più interessante è piuttosto il primo nella lista dei sette, ovvero la democrazia costituzionale all’occidentale, un tema trattato più volte dai media cinesi da inizio 2013, ad indicare come il Documento numero 9 non sia che la punta dell’iceberg di una polemica già in corso.
Il costituzionalismo, che tutela la costituzione come strumento contro gli abusi del potere politico e a garanzia dei diritti e della legge, è in certo modo l’elemento centrale da cui derivano le altre insidie citate nella circolare.
Secondo un articolo apparso il giorno di capodanno sul giornale Yanhuang Chunqiu, la riforma politica strutturale del paese sarebbe il diretto corollario del costituzionalismo.
“Dopo più di tre decenni di riforme, il problema delle riforme politiche che non tengono il passo di quelle economiche è ogni giorno più evidente. … La costituzione [cinese] garantisce ampiamente i diritti umani e limita il potere dello Stato”, ma quando la si compara con la realtà, prosegue il giornale, ci si accorge dell’enorme discrepanza tra le due. E conclude “La nostra costituzione è sostanzialmente vuota”.
Ovviamente lo Yanhuang Chunqiu è stato censurato. Stessa sorte è toccata pochi giorni dopo al settimanale Southern Weekly, che se n’è uscito con un articolo dal titolo “Il sogno cinese, un sogno di costituzionalismo”.
In risposta, alcuni giornali portavoce del partito hanno sottolineato che il costituzionalismo e la separazione dei poteri non si adattano né alla Cina né al socialismo, affermando che il paese deve credere nel PCC come i cristiani credono in Dio.
Chi ha orecchie per intendere intenda. E alla leadership cinese probabilmente interessa che il messaggio arrivi non tanto ai paesi occidentali, quanto a coloro che all’interno dei confini della Cina e del partito sperano e premono, nell’era Xi Jinping, per cambiamenti politici strutturali.
L’errore dei costituzionalisti è quello di pensare che la costituzione sia al di sopra del partito e che il partito ne abbia bisogno per legittimare il suo potere. La legittimazione il PCC la trova piuttosto nel suo ruolo di guida nella realizzazione del “sogno cinese”, un’evoluzione firmata Xi Jinping della filosofia della “società armoniosa” del precedente premier Hu Jintao.
Per attuare le riforme economiche necessarie alla realizzazione del sogno, Xi ha bisogno del consenso politico interno. E così, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, proprio lui che aveva pubblicamente elogiato la costituzione lo scorso dicembre, avrebbe poi cambiato direzione, secondo alcuni analisti per ingraziarsi l’ala più a sinistra nel partito.
Nel frattempo le richieste di legalità e trasparenza verso gli alti rappresentanti dello Stato si sono moltiplicate nell’ultimo anno. Informazioni sulle ricchezze, dirette e indirette, di alcuni leader sono state diffuse da due media occidentali, poi caduti sotto la mannaia della censura. Uno è l’agenzia Bloomberg, l’altro il New York Times, il cui reporter Chris Buckley, autore dell’articolo di rivelazione del Documento numero 9, è stato espulso dalla Cina il 31 Dicembre scorso.
Proprio oggi si apre a Jinan il processo contro Bo Xilai, pubblicizzato come prova della superiorità della legge di fronte ai leader politici ed esempio per altri casi di corruzione nelle alte sfere.
Eppure Bo faceva parte di quell’ala sinistra del partito che il Documento numero 9 sembra appoggiare.
Il giornalista Chang Ping del South China Morning Post si domanda come sia possibile che quelli che ieri osannavano Bo, dopo la sua caduta siano diventati ardenti difensori del nuovo premier Xi e scrivano, sotto pseudonimo, degli articoli contro il costituzionalismo. Il nuovo governo, conclude Chang, starebbe “seguendo la linea di Bo, ma senza Bo”.
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