Gli affari interni della Cina non si toccano. Pechino non manca di sottolinearlo ad ogni occasione. Sfruttando la sua posizione oramai centrale negli equilibri internazionali, la Cina usa lo spauracchio dell’interruzione delle relazioni bilaterali per dissuadere i dirigenti di altri stati da qualsivoglia ingerenza nelle sue questioni di “sovranità nazionale”. Questi ultimi, di conseguenza, evitano o smettono di sollevare delle questioni delicate per Pechino – che si tratti del Tibet, dello Xinjiang, dei diritti politici o altro – lasciando sprofondare i rappresentanti di queste cause probabilmente già perse in un isolamento sempre più grande.
Recentemente, le vicende del Dalai Lama e di Hong Kong hanno fornito degli esempi di questo meccanismo della terra bruciata. Un paio di settimane fa, il Dalai Lama si è visto rifiutare il visto per il Sudafrica, dove avrebbe dovuto partecipare al quattordicesimo Summit dei Premi Nobel per la Pace in ottobre.
Leader spirituale tibetano in esilio in India dal 1959 e premio Nobel per la pace nell’89, il 14° Dalai Lama Tenzin Gyatso è considerato da Pechino un pericoloso separatista che minaccia l’unità nazionale aizzando le richieste d’autonomia della regione tibetana.
Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha elogiato il governo sudafricano per aver rifiutato al Dalai Lama l’ingresso nel paese, mostrando in questo modo il suo rispetto per l’integrità territoriale della Cina. Un rispetto che, ha affermato, “è sottinteso nella partnership strategica tra la Cina e il Sudafrica”. Il rifiuto di visto è arrivato infatti in un periodo di rafforzamento dei legami tra i due paesi, segnato in particolare da un incontro per la cooperazione bilaterale tenutosi a Pechino a inizio settembre.
Altri, che nel passato hanno fatto una scelta opposta a quella del Sudafrica, ne hanno poi dovuto pagare il prezzo. Nel 2012, dopo l’incontro tra David Cameron e il Dalai Lama, il Regno Unito si vide cancellare l’intera agenda d’incontri bilaterali con Pechino per più di un anno.
La rivista Foreign Policy ha mostrato con un grafico la drastica riduzione degli incontri che il leader tibetano ha ottenuto con i vari capi di stato dal 2000 al 2014. Il periodico cita inoltre uno studio del 2010, secondo il quale le esportazioni verso la Cina di uno stato i cui leader hanno avuto un incontro ufficiale con il Dalai Lama rischiano una riduzione fino all’8% nei due anni successivi. L’ “effetto Dalai Lama” lo chiamano gli autori della ricerca.
In quella che sembra quasi una rinuncia o forse un’estrema strategia di negoziazione con Pechino, la settimana scorsa il settantanovenne Tenzin Gyatso ha annunciato che probabilmente non si reincarnerà e non ci sarà quindi un quindicesimo Dalai Lama. Su questa affermazione il governo cinese, pur dichiarandosi ateo, si è comunque sentito in diritto di fare un appunto e ha richiamato il Dalai Lama all’ordine ricordandogli che non ha alcun diritto di abbandonare sua sponte la tradizione della reincarnazione. Il titolo di Dalai Lama, ha ricordato il Ministero degli Esteri, “è conferito dal governo centrale”, secondo una “procedura religiosa stabilita”.
D’altra parte, se veramente il Dalai Lama decidesse di non reincarnarsi, Pechino non avrebbe alcun problema a rimpiazzarlo con uno made in China. Un precedente c’è già stato nel 1995, quando il governo cinese mise agli arresti domiciliari un bambino che era stato identificato come la reincarnazione del Panchen Lama (la seconda carica più importante dopo il Dalai Lama nel buddhismo tibetano) e lo sostituì con una persona di sua scelta.
Insomma, questo Dalai Lama qui a Pechino non piace, ma che non gli si tolga il sacrosanto diritto – è il caso di dirlo – di avere comunque e in ogni caso un Dalai Lama.
Questo gioco di dirigenti fantoccio e di terra bruciata avviene allo stesso tempo, anche se su dinamiche molto differenti, a Hong Kong.
Il movimento hongkonghese Occupy Central chiede oramai da mesi che il capo dell’esecutivo della città venga eletto a suffragio universale senza nessuna selezione a monte dei candidati da parte di Pechino. Se all’inizio le proteste sembravano poter smuovere delle acque (soprattutto grazie a un referendum ufficioso a giugno scorso ), recentemente gli attivisti hanno raccolto sostegni internazionali più blandi di quanto potevano sperare.
Durante la sua visita a Pechino la settimana scorsa, Susan Rice, consigliere USA per la sicurezza nazionale, ha sollevato molto brevemente la questione di Hong Kong : “Era importante per noi parlare del suffragio universale, che significa : una persona, un voto”. Tanto è bastato per suscitare la risposta netta del Ministero degli Esteri cinese, che ha sottolineato di nuovo che gli stati esteri dovrebbero “evitare di fare commenti sulla riforma politica ad Hong Kong”.
Tra l’altro, secondo delle fonti del giornale locale South China Morning Post, Washington avrebbe in seguito attenuato la sua posizione sull’argomento.
Molto più implicato nel dibattito rispetto agli Stati Uniti è il Regno Unito, firmatario della dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, con la quale decise la cessione di Hong Kong alla Cina nel ‘97. Il trattato, registrato presso le Nazioni Unite, stipula che Hong Kong sia governata secondo il principio “un paese, due sistemi” per 50 anni, fino al 2047, mantenendo il suo sistema capitalista, un’ampia autonomia e una serie di libertà civili ed economiche.
È stata grande la delusione degli attivisti di Hong Kong nel leggere, a inizio settembre, una dichiarazione dell’Ufficio britannico degli affari esteri e del Commonwealth , che saluta positivamente le scelte di Pechino e sembra defilarsi dalla questione.
Il Regno Unito sta tuttavia effettuando un’inchiesta per valutare l’effettiva messa in opera della dichiarazione sino-britannica. Un’indagine che secondo una minaccia non tanto velata dell’ambasciatore cinese a Londra Liu Xiaoming “finirà per nuocere agli interessi della Gran Bretagna”.
A schierarsi dalla parte di quelli che vorrebbero un cambiamento forte per la città c’è Chris Patten, ultimo governatore della Hong Kong colonia britannica. In un editoriale sul Financial Times Patten scrive che assicurarsi della libertà di Hong Kong è per il Regno Unito un “obbligo morale e politico”, in virtù della dichiarazione congiunta dell’84.
“Ipocrita”, così lo ha definito l’ambasciatore cinese Liu. Patten critica la Cina, ha detto, ma il Regno Unito non ha fatto nulla in 150 anni per incoraggiare la democrazia a Hong Kong.
“La democrazia – ha aggiunto – arriverà ad Hong Kong naturalmente”. Viene da chiedersi cosa avrà voluto dire con “naturalmente”, se le proteste di piazza che durano da mesi non rientrano in questa categoria.
“Presto o tardi – scrive Patten – il governo britannico commenterà i piani di Pechino. Non sarà una provocazione, ma un dovere. Non si può seriamente credere che ciò avrà delle conseguenze commerciali o che queste conseguenze debbano essere una preoccupazione primaria quando si tratta di salvaguardare il nostro onore”.
Eppure questi commenti saranno letti dalla parte cinese come una provocazione e porteranno a delle conseguenze commerciali. Perché per il momento questo è l’unico modo che Pechino conosce per gestire la difficile intersezione tra le sue relazioni internazionali e i suoi argomenti sensibili interni.
Sembra di vedere un gigante maldestro cresciuto in fretta, che non sapendo come difendersi attacca, che stenta a crearsi un’immagine positiva e che non sa come servirsi del soft power. Come nota Patten, “l’ascesa della Cina è stata un bonus per il mondo, non una minaccia”. Peccato che proprio la Cina sembri non capirlo.
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