Il dato più significativo nell’ambito della circoscrizione estero per quanto riguarda i referendum sulla giustizia dello scorso 12 giugno non è il quasi stratosferico tasso di astensionismo, bensì il risultato in controtendenza rispetto all’Italia nella votazione sul primo e sul secondo quesito.
La scarsissima partecipazione alla consultazione al di fuori dei confini nazionali (circa il 16% tra gli italiani nel mondo compressivamente e addirittura appena il 9,8% in media negli Stati Uniti), oltre a rispecchiare la bassissima affluenza alle urne in Italia (20,9%), riflette un trend in discesa ormai consolidato tra gli elettori residenti all’estero.
Infatti, nel referendum costituzionale del 20 settembre 2020, quello che ha confermato la riduzione del numero di deputati e senatori, votò solo il 23,3% degli aventi diritto nella circoscrizione estero (una percentuale che scese al 20,9% negli Stati Uniti), contro il 53,8% dei residenti in Italia. Invece, nel precedente referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, indetto per confermare la cosiddetta riforma Renzi-Boschi, a votare erano stati il 30,8% degli italiani nel mondo e il 28,6% di quelli che vivevano negli Stati Uniti, mentre si era recato ai seggi ben il 68,5% dei residenti in Italia.

La causa della diserzione delle urne, soprattutto nella circoscrizione estero, non sembra tanto il contenuto tecnico dei quesiti referendari. In fondo, questioni di profonda natura etica e di portata universale, come la procreazione medicalmente assistita, non hanno conosciuto miglior sorte in passato. I quattro referendum in materia, tenutisi il 12 e il 13 giugno 2005, videro una partecipazione comparabile a quella di domenica scorsa: il 20% tra gli italiani nel mondo (solo il 14,7% tra quelli residenti negli Stati Uniti) e poco meno del 26% tra quelli che abitavano in Italia.
Piuttosto, pare del tutto scontato che chi risiede all’estero e, quindi, non è soggetto in maniera diretta alla normativa italiana (salvo alcune eccezioni particolari, come poteva essere il caso di chi conservasse proprietà immobiliari in Italia in occasione del referendum del 15 giugno 2003 sulla servitù coattiva di elettrodotto, cioè sull’obbligo per i proprietari terrieri di consentire il passaggio delle condutture elettriche sui loro terreni), finisca per disinteressarsi alla sorte dei provvedimenti legislativi operati su un territorio in cui non vive più o addirittura non ha mai vissuto (nel caso di discendenti di emigrati che hanno recuperato la cittadinanza iure sanguinis).
Del resto, questo prevedibile comportamento ha più volte portato alcuni costituzionalisti a sollevare obiezioni sull’opportunità di conteggiare anche i cittadini residenti all’estero tra gli elettori che concorrono a determinare il quorum della metà più uno degli aventi diritto, cioè la soglia che è indispensabile raggiungere affinché l’esito di un referendum abrogativo sia valido.
Quest’ultimo problema non si è posto domenica scorsa perché i votanti che risiedono in Italia hanno disertato per primi le urne in massa, invalidando di conseguenza i cinque referendum. Né era emerso, ad esempio, nel 2005 per lo stesso motivo e con le medesime conseguenze.

ANSA/MATTEO CORNER
In genere, nei referendum abrogativi italiani dell’ultimo terzo di secolo, a esprimersi, cioè a votare, sono stati in maggioranza gli elettori che concordavano con la posizione dei comitati promotori delle consultazioni. Infatti, dall’invito (ancorché in sostanza inascoltato) ad “andare al mare” da parte dell’allora leader socialista Bettino Craxi per boicottare il referendum sull’introduzione della preferenza unica nel 1991 all’appello (questa volta seguito) a disertare le urne lanciato dalla Conferenza episcopale italiana per affossare quello sulla procreazione assistita nel 2005, l’astensionismo è assurto a una strategia più efficace del votare No per contrastare le proposte abrogative.
Per rifarsi al caso dei quattro quesiti del 2005, a partecipare furono soprattutto coloro che volevano cambiare la legge. I Sì oscillarono tra il 78,2% e l’89,9% in Italia e fra il 58% e il 61,3% all’estero, a seconda delle diverse domande referendarie. Per questa ragione, colpisce la constatazione che lo scorso 12 giugno il 58,4% degli italiani residenti all’estero ha votato contro l’abrogazione del decreto Severino sull’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza dei condannati in via definitiva per delitti non colposi e che il 54,5% si è espresso contro l’eliminazione della possibile reiterazione del reato tra i criteri per disporre misure di custodia cautelare personale. In particolare, le corrispondenti percentuali dei contrari sono state il 61,4% e il 55,4% negli Stati Uniti. Invece, le due modifiche referendarie hanno ottenuto rispettivamente l’assenso del 54% e del 56,1% degli elettori che hanno votato in Italia.
La discrasia tra risultati all’estero e in Italia in questi due referendum trova una possibile spiegazione nelle determinanti che spingono a votare gli italiani che risiedono al di fuori del territorio nazionale, pur a fronte della costante diminuzione degli elettori attivi. Secondo un sondaggio condotto tra gli italiani nel mondo, i cui esiti sono stati da poco pubblicati nella collettanea Cittadini oltre confine. Storia, opinioni e rappresentanza degli italiani all’estero, a cura di Simone Battiston, Stefano Luconi e Marco Valbruzzi (Bologna, il Mulino, 2022), il 63,1% degli intervistati ritiene che l’efficienza del Governo italiano contribuisca “molto” a migliorare l’immagine degli italiani all’estero e un ulteriore 26,7% pensa che contribuisca “abbastanza”.
Queste percentuali fanno ipotizzare che le scelte degli elettori italiani all’estero che si preoccupano di votare siano in parte condizionate dalla ricaduta che le loro preferenze possono avere sulla propria percezione da parte delle società straniera in cui vivono, lavorano o studiano.

A fronte della sopravvivenza di stereotipi negativi, che continuano ad associare la politica italiana alla corruzione (nonostante le recenti benemerenze acquisite dal governo presieduto da Mario Draghi anche negli Stati Uniti) e l’Italia alla criminalità più o meno organizzata, è presumibile che i pochi votanti dall’estero nei referendum di domenica scorsa non abbiano voluto contribuire, ancorché indirettamente, a fornire nuovi elementi per alimentare tali luoghi comuni.
Nella direzione di sostenere i pregiudizi sarebbero potuti andare sia la possibilità dei condannati di ricoprire cariche elettive pubbliche, sia il parziale ridimensionamento delle misure di detenzione. Se così fosse (non ci sono dati specifici perché il sondaggio è stato effettuato prima dell’indizione dei referendum sulla giustizia), il comportamento di voto di una parte degli italiani all’estero rifletterebbe non tanto la volontà di concorrere alla definizione della politica italiana, come sarebbe nello spirito del voto per corrispondenza, quanto il desiderio di evitare che quanto avviene in Italia possa influenzare negativamente l’esistenza di chi vive fuori dai confini nazionali.
Nello specifico, si sarebbe trattato di evitare di essere identificati con un Paese che permette ai pregiudicati di ricoprire funzioni pubbliche (perfino all’interno del governo) e che potrebbe essere tacciato di essere talmente lassista nella prevenzione del crimine da non preoccuparsi di contrastare la reiterazione dei reati attraverso lo strumento della custodia cautelare.
D’altra parte, esistono dei precedenti che sembrano avallare una tale interpretazione. I referendum costituzionali del 2006 e del 2016, sebbene fossero stati bocciati complessivamente con il 61,3% e il 59,1% dei voti, furono invece approvati dalla maggioranza degli elettori italiani all’estero, pari al 52,2% nella prima consultazione e addirittura al 64,7% nella seconda, perché furono percepiti come riforme indispensabili che avrebbero reso più efficiente il governo italiano e, di conseguenza, avrebbero pure migliorato l’immagine degli italiani nel mondo.