Ci sono numeri che non fanno dormire o fanno sognare i leader politici italiani.
Il numero 26 è foriero di incubi per il presidente del consiglio e leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: sotto quella cifra, a spoglio ultimato delle elezioni per il Parlamento Europeo che si svolgeranno sabato e domenica 8 e 9 giugno, vorrà dire che gli italiani non sono più così entusiasti del suo modo di governare e che sono scettici di fronte a troppe promesse cui hanno fatto seguito ben pochi risultati.
Il numero 22 fa sognare Elly Schlein. Arrivare a quella quota percentuale di voti vorrà dire aver stabilizzato la sua leadership del Partito democratico, imbrigliato in qualche modo le correnti interne al partito e dimostrato che la campagna elettorale, molto domestica e poco europea, e centrata sui problemi dei salari e stipendi troppo bassi, sul funzionamento a scartamento ridotto del sistema sanitario e sulla critiche serrata al governo di destra centro in carica ha funzionato.
Il numero 10 farà sbocciare sul viso del leader di Forza Italia Antonio Tajani, oggi vice presidente del consiglio e ministro degli Esteri, un sorriso destinato a non spegnersi per molto tempo. La soglia del 10 per cento dei voti significa che è riuscito a raccogliere l’eredità di Silvio Berlusconi, a renderla più solida e a occupare un posto non marginale nel governo Meloni (in questa eventualità, il presidente del consiglio dovrà anche abituarsi a dover rispondere a maggiori richieste di FI).
Il numero 10 può anche essere l’incubo di Matteo Salvini, come Tajani vice presidente del consiglio e ministro delle Infrastrutture e Trasporti. Se il rivale degli Esteri arriva a quella percentuale di voti e lui resta dietro è una sconfitta del leghismo sovranista e russofilo. Se poi non riesce a superare neanche 8,8 per cento che raggiunse alle politiche del 2022 cominceranno a suonare campane a morto per la sua segreteria e non ci saranno generali Vannacci a poterlo salvare dal naufragio politico ed esistenziale.
Il numero 15 è la linea del fronte di Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle. Sotto quella percentuale ci sarà la nitida prova che non è riuscito a costruire il M5S del futuro senza Beppe Grillo, che non potrà reclamare un ruolo da protagonista né in Europa (dove i suoi hanno brillato per inconsistenza, per torsioni destrorse e per non essere riusciti a creare una credibile rete di alleanze) e neanche in Italia, dove gli rimarrà solo il no ideologico a possibili alleanze.
Il numero 4 evoca spaventosi incubi per tanti politici italiani: per Emma Bonino e Matteo Renzi che si sono messi insieme sotto la sigla Stati Uniti d’Europa, per Carlo Calenda che corre in solitaria con Azione, la sua creatura politica; per Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, coppia inseparabile del radicalismo italiano che hanno puntato molto sulla candidatura di Ilaria Salis, appena passata da un carcere ungherese agli arresti domiciliari in quel paese (era finita sotto accusa di aver partecipato a una aggressione a militanti neonazisti a Budapest). Se i tre partiti non supereranno il 4 per cento dei voti resteranno fuori dal Parlamento europeo e i voti eventualmente ricevuti saranno come carta straccia con l’ovvia conseguenza che anche nell’arena politica italiana la loro voce perderà consistenza.
Se questa è la mappa dei radiosi sogni e dei terribili incubi che vivono in questi giorni i leader politici italiani, va segnalato che nel resto dell’Europa esistono situazioni altrettante complicate e foriere di possibili sconvolgimenti politici. Il tutto mentre non accenna a delinearsi una possibile soluzione alla guerra portata dalla Russia in Ucraina. Anzi, nelle ultime settimane in modo irresponsabile molti leader europei hanno utilizzato la questione guerra in funzione della politica interna e delle elezioni europee: il presidente francese Macron straparlando di consiglieri militari francesi da inviare a Kiev o di mettere a disposizione dell’Unione europea il deterrente nucleare di Parigi. A seguire il ministro della difesa tedesco che ha invitato a prepararsi a una guerra dell’Europa alla Russia entro il 2029, e i politici di governo polacchi pronti a inviare loro truppe in Ucraina. Intorno, il coro euroamericano sulla necessità di utilizzare le armi regalate a Kiev per colpire obiettivi sul suolo russo. Neanche una parola per ipotizzare la costruzione di una strada che porti a un tavolo di discussione tra russi ed ucraini, a un cessate il fuoco e a colloqui di pace.
Infine, resta l’incubo non tanto dei leader politici ma di tutti gli italiani che continuano a credere che una Europa unita e forte possa essere lo strumento di crescita, di democrazia, di pace. È l’incubo che si chiama astensione. Nelle due ultime tornate elettorali europee l’affluenza alle urne ha segnato il 57 (2014) e 54 (2019) per cento. Se questo trend fosse confermato potrebbe andare a votare meno del 50 per cento degli aventi diritto. Che è un modo di dire che alla maggioranza degli italiani dell’Europa non importa nulla.