[Di ritorno dall’Ucraina]
La notte tra il 23 e il 24 febbraio 2022 sarà consegnata alla memoria come la più lunga della storia ultra-contemporanea, al termine della quale gli europei si sono risvegliati con una guerra nel cortile di casa, ma dalle ricadute potenzialmente continentali, financo globali.
Dopo mesi di minacce e prove muscolari, in particolare tra Russia e Stati Uniti, Vladimir Putin ha dato ordine alle forze armate di invadere l’Ucraina con quella che lui ha definito “operazione speciale militare”. Inaugurando di fatto un conflitto nella pendice orientale del Vecchio Continente che, per la prima volta in quasi ottanta anni, vede tra gli attori una potenza nucleare.
Lo sforzo principale, per chi come il sottoscritto ha trascorso un periodo prolungato sul campo, è di trovarne una definizione aderente e onnicomprensiva del conflitto. Questa guerra è una guerra strana, diversa se non altro da tutte quelle che ho avuto l’opportunità di raccontare in presa diretta in quasi quindici anni di fronti e prime linee. È un conflitto che ha assunto da subito i contorni delle guerre novecentesche, con le trincee tornate ad essere gli alvei naturali dei combattenti, così come lo furono nella Prima guerra mondiale. E con caratteristiche strategiche simili al Secondo conflitto mondiale, per quanto riguarda ad esempio l’impiego intensivo di artiglieria e unità corazzate.
Ma è al contempo una guerra fortemente condizionata dalla tecnologia, come dimostra l’uso dei droni dall’una e dall’altra parte o gli attacchi cibernetici bidirezionali. Ed infine è un conflitto fatalmente contaminato dalla “infowar”, quella guerra di informazione, disinformazione e propaganda, divenuta di diritto la quarta dimensione bellica.
Mettendo a sistema queste caratteristiche ne deriva una complicanza nel descriverne fatti e misfatti, come ad esempio le vicende di Bucha a Kiev, e dell’acciaieria Azovstal di Mariupol’. Possiamo però dire, ed è questa una delle poche certezze maturate sul terreno, che non si è trattato di certo di un’operazione lampo come alcuni a Mosca sostenevano. E non è neanche detto che nella mente di Putin, ormai quasi del tutto imprevedibile, vi fosse realmente l’idea di condurre un’operazione fulminea.

Alla vigilia del compimento del terzo mese di ostilità, pertanto, la percezione che si ha è che il leader del Cremlino abbia aperto un capitolo della storia del mondo che non sarà poi così breve. L’armata di Mosca ha varcato il punto di non ritorno marciando sul Donbass, nelle province di Donetsk e Luhansk dove l’obiettivo era “mettere in sicurezza” la popolazione russofona. Sin dalle prime battute del conflitto è apparso chiaro che le mire del Cremlino andassero oltre, e che l’operazione “speciale” di tipo militare si sarebbe trasformata in una guerra totale nel cortile di casa della NATO.
C’è inoltre il fattore Volodymyr Zelenskyy, il presidente ucraino che rappresenta il vero collante e il grande motivatore della resistenza, il presidente di guerra ora sostenuto anche da formazioni nazionaliste che prima lo criticavano aspramente. Ed è questa, forse, la principale sottovalutazione di Putin, che pensava di trovarsi davanti uno scenario tipo Afghanistan, con un presidente in fuga come Ashraf Ghani e, di conseguenza, una resistenza che si sarebbe sciolta come neve al sole.
L’impresa invece si è dimostrata ben più campale per le forze armate russe abbagliate da facili previsioni dei generali che spesso dicevano a Putin quello che si voleva sentir dire. Abbagli e illusioni che hanno costretto gli Stati maggiori a cambiare sbrigativamente comandanti, strategie e obiettivi. Oltre a dolorose conte dei morti tra i propri militari, almeno 27 mila sino ad oggi. Così è maturato il ritiro da Kiev, dove era in corso un assedio che stava diventando una sorta di stillicidio per i russi (sebbene Putin abbia utilizzato solo una percentuale limitata del suo pieno potenziale bellico per non evocare immagini che avrebbero riavvolto il nastro della storia indietro di ottanta anni).
C’è stato poi l’affondamento del Moskva, incrociatore iconico della flotta russa, non certo la punta di diamante data la sua età, ma senza dubbio di grande valore simbolico. Eppure non è stato complicato per la missilistica ucraina affondarlo nel Mar Nero proprio davanti alle coste di Odessa. Infine ci sono state le tanto attese celebrazioni del 9 maggio, data della vittoria russa nella Grande guerra patriottica contro i nazisti (a tema con la narrativa della denazificazione dell’Ucraina), senza aver portato in Piazza Rossa un risultato importante. Anche dopo il cambio di strategia, con cui la Russia ha deciso di concentrarsi in Donbass, dove tutto è cominciato otto anni fa, e nel Sud.

L’obiettivo di Putin, dice l’intelligence degli Stati Uniti, è arrivare fino a Odessa, possibilmente annettendola, e collegandosi così alla Transnistria, lo staterello filorusso in Moldavia. Ma per ora si tratta solo di propositi. Neanche l’espugnazione dell’acciaieria Azovstal è stata completata per conferire alla parata di Mosca del 9 maggio, già chiaramente sotto tono, una parvenza di autorevolezza.
Nel frattempo sono iniziati ad arrivare i massicci aiuti militari occidentali all’Ucraina, in particolare grazie all’opera di facilitazione di Joe Biden dopo un’iniziale indugio del presidente degli Stati Uniti. E con essi le prime vittoriose controffensive dell’esercito di Kiev, con la liberazione dell’oblast’ di Kharkiv (la seconda città ucraina per abitanti), che ha quasi respinto le forze russe oltre il confine, minacciando i rifornimenti di Mosca nel Donbass e dimostrando quanto precaria sia la sua presa nei territori appena conquistati.
A quasi tre mesi dal suo inizio non si riesce a capire come e quando finirà questa guerra. Fin qui l’esercito di Mosca non ha certo brillato. Eppure in diverse zone è riuscito ad avanzare, sebbene sovente pecchi di errori grossolani e reiterati. Gli attacchi della sua artiglieria e dei suoi missili continuano a martellare tutto il Paese, ma con un inesorabile deterioramento delle scorte di vettori balistici. A volte sembra mancare di strategia e di lavorare solo su tattiche erga omnes, in alcuni casi scavando trincee fortificate con la consapevolezza che, forse, in quelle buche i russi ci staranno del tempo. Quanto territorio Mosca finirà per sottrarre dipende in gran parte dalla velocità con cui i due eserciti avversari saranno in grado di riarmarsi.
Gli ucraini rispondono, si battono stoicamente lungo tutta la linea del fronte, e per ora stanno bloccando l’invasore. Da est a ovest, i cittadini si sono gettati in massa nello sforzo bellico. Arruolati come volontari combattono in prima linea con le unità di difesa territoriale con cui abbiamo condiviso diverse trincee tra il Donbass e Kharkiv. Guidano furgoni carichi di cibo, di forniture mediche, fanno i turni ai posti di blocco. E spesso, nonostante tutta la miseria e l’incertezza, iniziano a pensare a che tipo di Paese vorranno ricostruire quando tornerà un minimo di pace.

Ma questa pace di cui si starebbe tanto parlando nelle cancellerie europee, specie dopo la missione del premier Mario Draghi negli Stati Uniti, non sembra essere così desiderata dai diretti interessati. Non certo da Putin che, al netto delle sue condizioni di salute, vuole andare sino in fondo o, in alternativa, andare a fondo. Non da Kiev contraria a un cessate il fuoco in questo momento in cui sta mettendo a segno importanti risultati sul campo. “Fermare le ostilità temporaneamente – affermano gli ucraini – significherebbe concedere ai russi la possibilità di tirare il fiato, di raggrupparsi e riposizionarsi per poi tentare una nuova spallata”.
Ma anche Washington è scettica: in questo senso infatti la telefonata tra i ministri della Difesa Lloyd Austin e Serghei Shoigu, peraltro concordata con Kiev, non è da interpretarsi come un’apertura bensì come un ultimatum. Gli USA hanno voluto dare alla Russia nuovi segnali legati alla ‘Lease Lend Act’ sulla fornitura di armi, avvertendo Mosca che Washington invierà tutti gli armamenti necessari a metterla in serie difficoltà. In questo senso il colloquio è da considerarsi un monito con cui si è intimato al Cremlino di smettere di bombardare i civili.
Bombardamenti che tuttavia non cessano, anzi la guerra sul campo continua cruenta come sempre, con un aggravio in termini di bilancio delle vittime civili che si eleva giorno dopo giorno. E senza risultati sostanziali di progresso dall’una e dall’altra parte, con una serie di impasse a macchia di leopardo tali da poter trasformare il conflitto in guerra di logoramento, con il rischio di contagi sistemici forieri di nuovi conflitti per procura (USA-Russia) come quelli che hanno caratterizzato il Medio Oriente nel decennio scorso. Ma questa volta nell’ombelico della Vecchia Europa.