Nel tempo libero dal frastuono della guerra risuonano tante campane. È il bello della democrazia. Il guaio è l’opposto: quando non c’è varietà di voci, l’assortimento di tendenze che è il sale delle nostre società. Poi le opinioni possono essere seriose o riduttive, lungimiranti o fantasiose. In sintonia o meno con la nostra sensibilità. A volte persino bizzarre e ciniche.
Altrove, nelle dittature, tutti allineati e coperti, per timore del peggio, per repressione del dissenso. In Russia, per dire, risuona una sola campana, bella, forte e martellante, così manca il frastuono e con esso la verità, c’è solo la menzogna di Stato. Vantaggio apparente: è più facile che il pensiero sia unico, coerente, solido, poi vai a vedere cosa bolle in pentola.
Putin, di fronte allo smacco di non essere riuscito a fare dell’Ucraina – paese “inesistente” e “territorio russo” – un sol boccone in poche ore, può anche consolarsi con le percentuali dei sondaggi addomesticati. Una volta si diceva “bulgare”, ora rende di più l’idea chiamarle “russe”. Lì, mancano informazioni, non è ammesso il dibattito, la verità è una sola, media indipendenti sono stati chiusi o si sono “autosospesi” (Colta, Rain.tv, Meduza, Novaya Gazeta).
Quei pochi cittadini che sollevano dubbi, che si azzardano a mettersi di traverso – un cartello “no war” in Tv, uno striscione di carta bianca davanti al Cremlino – sono zittiti prima che possano andare avanti, e messi in galera. A fare compagnia a Navalny, nei prossimi nove anni (più i due già inflitti). Nella speranza di non finire come Anna Politkovskaja, la giornalista che pagò con la vita il coraggio di dire la verità sulla guerra di Putin in Cecenia.
Da noi, flussi di informazioni, dibattiti allo sfinimento, mentre l’occhio dei telefoni, oltre a quello delle vittime e dei testimoni, porta tutto in primo piano, rende esplicito l’orrore. Impossibile sbagliarsi. Soprattutto negare l’evidenza. Eppure ciò non esclude la trappola dei pregiudizi e il pantano delle discussioni sfibranti, in cui riemerge di tutto: le riserve contro la Nato, la simpatia per il “decisionista” Putin (Salvini e Berlusconi), benedetto dal primate ortodosso Kirill, l’insoddisfazione verso la libertà occidentale, chissà che altro.
Una miriade di distinguo e di incertezze, che impedisce di vedere chiaro. Già è tanto se si critica l’invasione, il resto invece, il che fare, se mandare armi, è avvolto in una nube in cui tutto sfuma. C’è, a tutta evidenza, una gara d’ingegni sul modo di mettere fine a questa guerra, e qualcuno ne sa sempre più degli altri, saprebbe come fare, ha la ricetta magica, mentre gli altri, sempliciotti, non comprendono, anche se la soluzione – in questo coro – è sempre diversa l’una dall’altra.

Se non sostenere l’Ucraina in tutti i modi (accoglienza, armi, sanzioni alla Russia), che altro fare? Arrendersi? Consigliare Kelensky di smetterla con la pretesa d’essere indipendente e libero di fare quel che ritiene? Sfilare davanti all’Armata russa sino a Kiev per invocare pace? Farci andare il Papa perché sia più efficace? Che altro, che non sia resistere all’aggressione? E aspirare ad una pace non punitiva per gli ucraini incolpevoli?
Queste opinioni si focalizzano su un punto, la situazione è sempre più complessa di quel che appare, ci sono le grandi ragioni da tenere presente. La complessità come categoria ideologica astratta che tutto assorbe e annulla, persino l’umanità. Contano solo le ragioni della Storia con la maiuscola, che prescinde sempre dai destini dei singoli.
Chi non vede dietro tutto questo «l’arroganza dell’Occidente succube dell’Amerika» (Luciana Castellina)? C’è il «maccartismo di chi accusa i pacifisti di essere pro-Putin», si lamenta Luciano Canfora. Non manca la premura verso l’aggressore: «per ogni battaglia persa da Putin, c’è da preoccuparsi di più (Alessandro Orsini, politologo, che si autodefinisce: «io guerriero»). L’abitudine in guerra di usare «materiale propagandistico ad hoc», finisce oggi per mettere in dubbio la veridicità delle immagini cruenti che osserviamo tutti, come «il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol» (Carlo Freccero).
Dunque la guerra è come una fiction, un set dove non si spara davvero e non si uccide realmente, solo per finta, e si distribuiscono parti, si usano attori. Paragone azzardato? Non tanto, quando c’è di mezzo uno come Zelensky, ex attore che non a caso aveva impersonato un presidente nella fiction che lo rese famoso. Ne deriva che ora «la realtà non sappiamo se sia realtà o post-realtà», conclude il sagace Freccero.

In ogni caso, c’è qualcos’altro da tenere presente, che distoglie lo sguardo dall’eccidio nelle strade e nelle città, dai corpi trovati a terra con un buco nelle tempie, dai bambini uccisi negli ospedali, dalla gente massacrata nei palazzi bombardati. Infiniti pregiudizi antioccidentali o forse solo irrazionali portano sempre lontano da lì, dal sangue e dai corpi. Spingono a negare l’evidenza (quella sempliciotta e grossolana, chiara ai poveri di spirito, con animo da guerrafondai, non agli ingegni raffinati) che proviene da un’immagine.
Quando c’è uno grande e grosso che picchia sodo un altro tanto più piccino di lui, che si fa? Come ci si comporta, se dopo avergli detto più volte «scusa, smettila, non farlo più, parliamone un po’ con calma», e quello tutte le volte dice «sì, sì» e poi però, anziché fermarsi, riprende a picchiare ancora più forte e anzi minaccia di fare altri sfracelli? Che fare poi?
Sembra quasi che queste correnti di pensiero trovino nell’opinione pubblica italiana una incidenza superiore a quella che si registra in altri paesi. L’Italia come punto debole del fronte occidentale? Solo nel parlamento italiano si sono registrate tante assenze non casuali (circa un terzo) quando ha parlato il presidente ucraino Zelensky.
Qualcuno l’ha ritenuto uno “show”, qualcun altro ha invocato la follia della par condicio per evocare una videoconferenza di Putin: quali “ragioni” avrebbe dovuto esporre? Del resto è parso palese che anche l’intervento di Zelensky abbia avuto un tono diverso, come se avesse tenuto conto di una sensibilità non uniforme, nonostante la standing ovation dei presenti: nessun accenno agli aiuti militari ma solo al sostegno umanitario italiano e allo spirito di solidarietà.
In Italia si fa sentire una minoranza turbolenta, la quale ha la specificità di seguire la teoria per cui tutto è collegato maledettamente, anche se non ve ne è prova. Questo esercito, variegato e raffazzonato, di politici, intellettuali, accademici – in cerca di visibilità, ansioso di propagandare teorie bislacche – coltiva battaglie che presentano un filo in comune: negare l’evidenza e costruire realtà alternative.

Un mondo culturalmente esausto e traballante, senza approdi che non siano l’incertezza, il dubbio, la logica. Il rifiuto irrazionale di riconoscere i fatti. Allora, che si fa? Così, in un’equazione ardita e inusuale, il Covid sta all’invasione dell’Ucraina come il green pass alle armi della Nato. Secondo questo assortimento di idee, trasversale tra certa sinistra e certa destra, emerge la «continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato» (Ugo Mattei, giurista), granitica certezza che prelude a conclusioni che lasciano senza fiato: gli scienziati mentono sulla pandemia, questa guerra come tutte le altre è stata causata dall’Occidente.
Il proliferare di simili correnti di pensiero probabilmente è alimentato dalle fragilità politiche e istituzionali del sistema. Contano la frammentazione partitica, lo smarrimento del confine tra informazione e spettacolo, anche l’ideologia dell’“uno vale uno”. Infine lo scadimento qualitativo del ceto dirigente. Prevalgono convenienza politica, remunerazione elettorale, qualunquismo informativo.
Pace e guerra sono temi possenti ed eterni, ma nei dibattiti odierni è terribilmente lontano l’inquietante orizzonte ideale di Gandhi e Martin Luther King, o per rimanere da noi di don Lorenzo Milani, Aldo Capitini, Gino Strada. Sfocate sono le pagine nere della storia più recente, quelle sul cedimento europeo ad Hitler nella rivendicazione dei Sudeti nella speranza che, mangiati quelli, fosse sazio. O tutte le altre nelle quali la Storia è inciampata: come opporsi alla sopraffazione e alla tirannia?
L’Europa, uscita dal sonno della ragione con la pandemia e la guerra insensata voluta da Putin, ha scoperto la verità di sempre: nulla è scontato o a buon mercato. Tutto richiede sforzo ed impegno. Come insegna la resistenza ucraina, e dovremmo saperlo noi italiani, la libertà non è un frutto della natura, un dono spontaneo, ma una conquista continua, che si fonda sul lavoro costante dell’uomo. Benedetto Croce, in una delle pagine della Storia d’Europa, aveva messo in guardia: «la libertà è sempre lotta per la libertà».

Quegli argomenti suscitano profonde tensioni morali, specie se devono confrontarsi con la realtà e con la percezione concreta del rischio. Un sentimento complesso che in questo momento mescola vari timori per nulla trascurabili: le forniture del gas, la crisi economica post-pandemia, l’impatto dell’esodo dei profughi ucraini. E poi c’è il non-detto catastrofico della bomba atomica, un pericolo reso inquietante, dal nervosismo del tiranno.
L’idea che il rischio in questa fase sia giunto ai livelli di guardia più alti fa dubitare tanti: bene gli ideali, ma non sarà il caso di darla vinta, prima della catastrofe? Ci vuole fermezza e coraggio. Cedere sarebbe una soluzione sbagliata come la storia ha più volte dimostrato: rimanderebbe il dramma e ne preparerebbe un altro ancora più grande.
«C’è un diritto supremo alla libertà e a difendere la propria casa, la propria bandiera, la propria dignità. Con tutti i mezzi», ha osservato lo scrittore Erri De Luca, aggiungendo: «da pacifista storico, dico che oggi armare l’Ucraina è l’unica soluzione per salvarla e per indurre Putin al negoziato», e poi va ricordato, il bagaglio che l’Europa consegna all’Ucraina non è costituito solo dalle armi, è «naturalmente la solidarietà umanitaria, l’accoglimento dei profughi, il livello delle sanzioni».
C’è una barbarie di tipo parolaio, quella verbosità inconcludente che provoca straniamento e allontana dalle soluzioni. Una fase in cui la nostra civiltà patisce il degrado e entra in un vicolo cieco. Quando un missile centra un ospedale uccidendo centinaia di bambini, e ciò avviene non per sciagurato errore, comunque grave, ma deliberatamente per terrorizzare e indurre alla resa; quando un’armata, frustrata e delusa, uccide a colpi di pistola alla nuca civili inermi con le mani legate, stupra le donne e fa strage di anziani, è inevitabile una scelta di campo. Lo spazio tra viltà e complicità è inesistente. Non c’è un posto libero, che non sia né dalla parte del missile o da quella dei bambini colpiti.