Lo sforzo è durato giorni. Capire cosa Vladimir Putin avesse in testa a proposito dell’Ucraina è stato il principale problema che, di fronte ad un’escalation di portata sorprendente sino all’attuale invasione, ha coinvolto tutti: leader dei principali paesi occidentali impegnati nella diplomazia, esperti, commentatori. Persino la gente qualsiasi che ascoltando notizie tanto incandescenti rimaneva esterrefatta e preoccupata.
Non che ci fossero tanti dubbi, a guardare lo schieramento massiccio di truppe e mezzi su tutti i lati del paese tanto da accerchiarlo e strangolarlo prima ancora di ogni mossa. C’erano poche perplessità ascoltando le parole usate dal nuovo zar del Cremlino, così pesanti e dense di implicazioni. Hanno colpito quelle usate da Putin nel discorso per annunciare il riconoscimento delle autoproclamatesi repubbliche del Donbass e ancora per spiegare i motivi politici della sua azione.
L’Ucraina non è mai esistita come tale, «fu creata da Lenin e dai bolscevichi». «Quelle sono terre strappate all’Urss». Era e rimane russa o comunque sotto la sua influenza. L’adesione all’Unione europea e alla Nato sarebbe una minaccia. Si impone la “denazificazione” del paese con l’eliminazione dei gruppi di estrema destra che hanno preso piede lì.
E infatti le operazioni militari in corso, non solo nel controverso Donbass ma ovunque, e nelle principali città, hanno mostrato quanto era scontato: la neutralizzazione dell’Ucraina come paese autonomo e indipendente è lo scopo evidente delle manovre, la preoccupazione centrale dell’azione di Putin.

Ma qualcosa in tutte le analisi è sempre sfuggito, tanto sono apparsi paradossali i giudizi del nuovo zar russo, incongruenti e contrari al senso di realtà. Come del resto ha sorpreso la mancata percezione dei costi di scelte spericolate in termini di vite umane. «I russi dovrebbero chiedersi quante vite (il presidente Vladimir) Putin è disposto a sacrificare per alimentare le sue ambizioni», si è chiesta allarmata l’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield. Di rimando l’ambasciatore russo Vassilj Nebenzia non si tratteneva dal minacciare quello di Kiev: «non ci andremo leggeri con chi non obbedirà».
Che qualcosa non andasse per il verso giusto se ne sono accorti tutti tranne Donald Trump che non si fatto sfuggire l’occasione per descrivere Putin come «un genio». Il presidente francese Macron, che pure non ha smesso di mediare, ha definito «paranoico» il discorso di Putin sulle ragioni dell’invasione dell’Ucraina. Anche su altro versante, c’è stato un commento analogo. Alexander Gabuev, già portavoce di Medvedev al Cremlino quando era al posto di Putin, ha detto che «non era normale l’ora di lezione di storia» per annunciare il riconoscimento del Donbass.
Si è cercato di capirne di più, anche per regolarsi di conseguenza, per stabilire come procedere noi in occidente, quali reazioni adottare, che fare davanti alla follia dilagante. L’opera di dialogo finora svolta, di avvertimento e seduzione insieme, cioè il bastone e la carota, sono stati un insuccesso, armi spuntate, ragionare con uno come lui non funziona. Hanno detto la loro collaboratori di Putin in diversi ruoli, quelli che l’hanno conosciuto di persona per qualche motivo (il regista Oliver Stone per esempio lo ha lungamente avvicinato e intervistato nel 2017), quanti potessero dare lumi sui comportamenti attuali.
Con Putin la Russia ha deciso di rompere i ponti con la comunità internazionale ponendosi di traverso rispetto al corso della storia moderna. Questo il punto cruciale. Le decisioni del nuovo zar rappresentano una svolta negli equilibri geopolitici mondiali, hanno riflessi sulle sorti del suo paese e sui rapporti di forza nel mondo, cambiano le cose per l’avvenire.

Non è agevole scavare in una personalità complessa, al potere da un ventennio, chiuso in sé stesso, inarrivabile, protagonista di un percorso politico lungo, dal ruolo nel Kgb dell’Urss all’attuale Russia autarchica, passando per Gorbaciov, Eltsin, la dissoluzione dell’impero sovietico. Sarebbe riduttivo fermarsi a qualche segnale minuto, che pure può anche aver avuto rilievo.
Il dito battuto (troppo) frequentemente sul tavolo mentre pronunciava il discorso minaccioso, il gonfiore anomalo sul viso, la distanza fisica da tutti gli interlocutori (non solo al famoso tavolo ovale usato nei bilaterali), le notizie vaghe ed incerte sulle condizioni di salute (colpito dal Covid?), l’obbligo di quarantena e di tampone per chiunque lo incontri, e così via.
Se Putin «non ha più i nostri codici di razionalità», come ha scritto Raphael Gluckmasnn che conosce molto bene Putin (è stato consigliere del presidente della Georgia quando la Russia intervenne nel paese), ci sarà pure un motivo, che interessa il mondo intero. Per non dire che la saldatura in Russia tra potere personale e sistema politico trascina tutto quel grande paese in un’avventura senza vie di uscita.
Dopo decenni al potere, alle soglie dei settant’anni e con una salute diventata segreto di Stato, è presumibile che l’azione di Putin sia costruita nel segno ambizioso e temerario di una “missione” che l’uomo si sia assegnata davanti al proprio paese e persino davanti alla storia.
Quel ruolo è maturato in una condizione di isolamento fisico per la pandemia e mentale-psicologico rispetto a interlocutori politici (i pochi lo vedono da distanze siderali imbarazzanti) e ancor più dalla società russa, in assenza di qualsivoglia confronto reale con ambienti che non siano dei cortigiani. «Putin decide sempre più da solo, nessuno può dire chi sia il consigliere più influente, né cosa ci sia nella sua testa», ha spiegato Fedor Lukyanov, direttore di Russia in Global Affair.
Appunto si ritorna all’enigma Putin. Le sortite sanguinose di questi tempi, dense di inusitata collera, sembrano la risultante di decenni di rancore e recriminazioni. Preoccupano e coinvolgono tutti, dagli Usa all’Europa, in particolare all’Italia che dipende dalla Russia per il gas. L’elaborazione del ruolo della Russia dopo la fine dell’Urss è compiuta in termini di recriminazione per una perdita inaccettabile: la fine dell’impero, la mancanza di potere assoluto su parte del globo. Putin si muove in una logica ottocentesca, fatta di nazionalismo, aree di influenza da conseguire e mantenere, anche a costo del sangue. «Usa metodi del XIX secolo nel XXI», sintetizzò bene una volta Angela Merkel.

La Russia fa i conti con il fallimento di sé stessa come società moderna, non è in grado di competere con alcuno in termini produttivi (a differenza per esempio della Cina), può solo esercitare il potere di ricatto (per via dell’energia e delle materie prime). La sola grandezza alla quale Mosca può aspirare oggi è quella del sovranismo territoriale affidato alle armi, del dominio su aree sottomesse, un principio-guida perverso perché richiede continua espansione ed è pericoloso: nessuno può dirsi al sicuro.
Questa impostazione non tollera limiti fisici da parte di paesi che rifiutano questa logica (come in questi anni l’Ucraina), soprattutto evidenzia la frattura insanabile con le democrazie. L’insofferenza di Putin non riguarda solo il fatto che un paese ai confini (peraltro enormemente più debole) possa fare scelte diverse dalle sue e voler aderire all’Europa. In discussione è piuttosto, la conciliabilità, a distanza così ravvicinata, tra il sistema autarchico e la democrazia, quali che siano state le vicende del passato, anzi proprio perché il presente ne è il superamento.
Solo uno sguardo rivolto all’indietro, fossilizzato e chiuso nei fantasmi di un tempo superato dalla storia, può negare il cambiamento e il diritto delle nazioni a vivere a modo proprio senza obbedire ad altri. Invece non ci sono vie di mezzo, quando si tratti di territori che sono stati russi ma che ora hanno deciso di sottrarsi all’egemonia. L’affronto è intollerabile. Quando è impossibile riconoscere la legittimità della democrazia scelta da un popolo, l’unica soluzione è eliminare quel paese.