L’allarme è stato lanciato dai servizi segreti italiani e rilanciato in un breve reportage di Repubblica: la Cina starebbe di fatto aggirando gli ostacoli legali che impediscono alle società del Dragone di partecipare all’infrastruttura europea di 5G. A permetterglielo sarebbe la vasta rete di accordi accademici stretti tra atenei italiani e società cinesi. Una rete che va dalla Sardegna a Milano, passando per Roma.
In particolare, secondo gli 007 romani, la direttiva di Pechino sarebbe quella di intensificare il più possibile le partnerships accademiche per costruire nuovi centri di ricerca e acquisire know-how tecnologico, stringendo al contempo accordi con enti locali che permettano ai cinesi di avere un ruolo diretto nella costruzione delle reti di ultima generazione.
L’articolo di Repubblica cita numerosi esempi di accordi italo-cinesi attualmente in vigore: il primo in ordine di tempo è stato quello siglato da Huawei con l’Università di Cagliari, ma il gigante tech cinese è presente nel Belpaese con ben 5 Innovation Centers sparsi sul territorio, un Joint Innovation Center realizzato in collaborazione con la Regione Sardegna, un Global Research & Development Center a Segrate e un Innovation Lab appena inaugurato a Pavia in collaborazione con l’università lombarda.
Un altro colosso delle telecomunicazioni, ZTE, si è invece concentrato sulle aree metropolitane (Roma, Milano e Torino). L’azienda di Shenzhen sta affiancando operatori nazionali come Wind Tre e Open Fiber nella realizzazione di smart cities (città digitali) e infrastrutture 5G in diverse città italiane, collaborando inoltre con l’Università di Roma-Tor Vergata e gli atenei di Torino e L’Aquila. A Roma, in particolare, un memorandum d’intesa siglato tra ZTE e amministrazione M5S Raggi nel 2018 ha previsto la partecipazione dell’azienda nella costruzione del 5G capitolino.
La penetrazione accademica cinese non spaventa solo Palazzo Chigi. Anche gli Stati Uniti si sono dimostrati assai sensibili al fenomeno. Nel 2018, l’allora amministrazione statunitense di Donald Trump aveva adottato la China Initiative, uno dei cui obiettivi era appunto evitare che gli accordi accademici tra atenei statunitensi e atenei/società cinesi finissero per “trasferire tecnologia contraria agli interessi degli Stati Uniti”. La misura ha diviso il mondo accademico nordamericano, parte del quale ritiene sacrifichi la collaborazione internazionale sull’altare dello scontro geopolitico-finanziario.
Tra le vittime più recenti della China Initiative figura un professore di Harvard che avrebbe nascosto alle autorità statunitensi i suoi rapporti economico-accademici con Pechino. Charles Lieber, 62 anni, ex capo del dipartimento di chimica e biochimica dell’università con sede in Massachusetts, è stato condannato da una corte di Boston per aver taciuto sui contributi finanziari ricevuti dalla Cina nell’ambito della sua collaborazione con l’Università tecnologica di Wuhan. Si tratta di 50.000 dollari al mese, una diaria fino a 158.000 dollari e una sovvenzione una tantum di 1,5 milioni per istituire un centro di ricerca. Ad inguaiare Lieber non è stata in realtà la collaborazione in sé, quanto la circostanza di aver ricevuto sovvenzioni anche da parte del Dipartimento della Difesa di Washington, omettendo di comunicare il conflitto d’interessi. Adesso, però, rischia fino a 26 anni di carcere.