Al momento è solo guerra di parole. C’è Ramadan Abu Jnah, capo del governo di Tripoli ad interim, che convoca i giornalisti e dichiara: «Abbiamo la possibilità di fare del 24 dicembre un giorno storico per la Libia. Il governo di transizione è pronto a passare il potere a un governo figlio di elezioni generali».
Davanti ai microfoni si presenta più o meno nelle stesse ore Omar Boshah, primo vice presidente dell’Alto Consiglio di Stato, l’equivalente del Senato per i libici. E dice: «Andare avanti verso il voto per le presidenziali senza seguire le leggi può distruggere l’intero percorso politico». Boshah non ama mediazioni: «Il risultato non sarà mai accettato».
La commissione elettorale libica ha innescato questa guerra di parole rimandando sine die la pubblicazione delle lista dei candidati alle elezioni presidenziali. Sommersa da ricorsi e contro ricorsi di aspiranti candidati alla presidenza, la commissione si è arresa. Così, ammesso che davvero i libici siano chiamati al voto il prossimo 24 dicembre, data stabilita a novembre scorso a Parigi in un summit internazionale organizzato da Francia, Italia e Germania cui hanno partecipato tutte le fazioni libiche, la campagna elettorale passerà alla storia come la più breve che si sia mai vista. Non solo in Libia ma in tutto il mondo.
Anche i più ottimisti, scuotono la testa di fronte agli ultimi avvenimenti. Per Richard Norland, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia è in atto un confronto tra «il potere delle pallottole e il potere delle urne», bullet power over ballot power. Questa le sue parole dopo il rinvio senza data della commissione elettorale: «Rifiutarsi di andare alle elezioni e mobilitarsi per impedirle, lascerà il futuro del paese alla mercé di coloro che all’interno della Libia, insieme ai loro supporter stranieri, preferiscono il potere delle pallottole a quello delle urne».
Sono quasi cento i cittadini libici che si sono presentati davanti alle commissioni elettorali delle varie città per presentare la propria candidatura nelle elezioni presidenziali. Questo ha innescato la guerra dei candidati, un tutti contro tutti per eliminare gli avversari prima ancora dell’avvio della campagna elettorale. Ogni nome sgradito ha trovato subito qualcuno che ha presentato ricorso: è avvenuto contro il primo ministro in carica Abdul Hamid Dbeibah, che al momento di accettare la guida del governo aveva promesso di non presentarsi alle elezioni presidenziali. E’ accaduto al generale Khalifa Haftar, il capo ribelle della Cirenaica. È accaduto anche al terzo figlio dell’ex dittatore Muammar Gheddafi, ricercato dal tribunale internazionale per crimini contro l’umanità.
E adesso? Bisognerà ricominciare tutto dall’inizio. Forse un altro vertice internazionale per trovare una nuova data. Ma il problema di fondo resta: i libici sono divisi in fazioni l’un contro l’altra armate. Certo la tregua sottoscritta a ottobre del 2020 regge ancora, ma le divisioni sono profonde e difficili da rimuovere. Anche perché tutti aspirano al controllo della ricchezza della Libia, petrolio e gas, che hanno rappresentato il 95 per cento del bilancio dello stato.
Tutto è diviso almeno in due. Ci sono due parlamenti, ci sono due eserciti, ci sono due banche centrali. Politici, militari e banchieri si riuniscono, si promettono di trovare l’unità al più presto e si aggiornano per una nuova riunione senza decidere nulla. Nessuno fa la prima mossa per cedere qualcosa del proprio potere. Spalleggiati da quei paesi che interferiscono ogni giorno e che hanno spedito – vedi i russi, i turchi, gli egiziani, i paesi del Golfo – le proprie falangi armate a sostenere l’una o l’altra fazione, tengono la Libia sospesa sull’orlo del baratro. Senza che nessuno. Europa, Stati Uniti, Nazioni Unite possa dire: adesso basta.