Chiuso il sipario, spente le luci, è tempo di bilanci per la COP26. Di decisioni, che dovrebbero essere contenute nel documento finale. Un documento che pur non essendo giuridicamente vincolante, è un chiaro impegno politico. Tre i punti fondamentali che dovrebbero essere contenuti nel rapporto finale della COP26: eliminare (gradualmente) l’uso del carbone, non concedere più sussidi per altri combustibili fossili e quali aiuti finanzi concedere alle nazioni più povere e più colpite dai cambiamenti climatici.
Simon Kofe, Ministro degli Esteri di Tuvalu (paese che la maggior parte dei partecipanti alla COP26 non sa neanche dove si trova), ha inviato un videomessaggio per far toccare con mano (anzi con i piedi) quali sono i rischi che corre il pianeta: Kofe ha parlato ai leader mondiali mentre era immerso fino alle ginocchia in mare. “La Cop26 arriva in un momento per noi difficile a causa del cambiamento climatico, ma stiamo reagendo con coraggio”, ha detto. Il Ministro dell’ambiente di Antigua e Barbuda ha accusato i grandi emettitori di non voler pagare i danni che hanno inflitto all’ambiente. “Per troppo tempo questi grandi emettitori se la sono cavata senza problemi, senza farsi facendosi avanti e senza essere costretti a pagare per il danno che hanno fatto”. “Questa non è carità e non sono aiuti”. Il punto è: hai fatto gravi danni alle piccole isole – Tuvalu sta scomparendo – quali altre prove (sono necessarie)?” ha detto in una intervista alla BBC.

Le prime tre bozze del documento finale della COP26 sono state bocciate. La prima è apparsa troppo “impegnativa”: parlava di phaseout (uscita) dal carbone e dai finanziamenti alla stessa fonte, assieme a gas e petrolio. Nella seconda bozza di dichiarazione si esortavano i paesi ad accelerare gli sforzi per smettere di bruciare carbone e per eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili, prendendo di mira direttamente il carbone, il petrolio e il gas che producono anidride carbonica, il principale contributo al cambiamento climatico causato dall’uomo. Ma senza fissare una data per eliminarli del tutto. Una proposta apparsa subito troppo blanda. Sono state introdotte parole come unabated (ovvero “prive di sistemi di recupero della CO2 prodotta”), con riferimento alle centrali a carbone da chiudere, e inefficient (inefficaci), riferito ai sussidi.
Ma molti paesi non sono ancora pronti a rispettare simili limitazioni. L’Italia, ad esempio, pare abbia deciso di seguire la strada intrapresa da alcuni paesi e da molti costruttori auto e ha deciso di non firmare l’accordo che prevede l’addio ai motori a combustione interna (benzina e diesel) fissato per il 2035. Il ministro Giorgetti sostiene che l’Italia debba supportare le imprese per consentire all’industria “di essere trainante e un punto di riferimento in tutto il settore automotive”. Ma che la transizione debba essere “razionale”, evitando il rischio di cadere in “trappole ideologiche” che, secondo il ministro, “non servono all’ambiente, alle nostre imprese e ai consumatori”. Intanto, il Bel Paese è scesa al 30esimo posto (su 63) nel Climate Change Performance Index (CCPI) 2022, in calo rispetto al 27esimo dello scorso anno. A causare questa debacle il punteggio basso ricevuto per i suoi obiettivi di gas serra per il 2030: “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del paese presentato nel 2021, prevede un obiettivo di riduzione delle emissioni a livello economico del 51% entro il 2030”, si legge nell’indice, elaborato da Germanwatch, Climate Action Network (CAN) e New Climate Institute, in collaborazione con Legambiente. (Ma di questo alla COP26 non si è parlato).
Anche questa proposta non è stata accettata. E così per la terza bozza che conteneva un invito ad accelerare “gli sforzi verso l’eliminazione graduale dell’energia a carbone senza sosta e dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili”.
Il punto non è cosa promettere a lungo termine (in questo i maggiori leader mondiali sono bravissimi). Il nocciolo della questione è cosa fare nell’immediato. E qui non c’è nessun accordo. I “negoziatori” hanno lavorato tutta la notte tra venerdì e sabato per cercare di raggiungere una mediazione su molte delle questioni controverse. Quanto devono pagare i paesi sviluppati come risarcimento alle nazioni più duramente colpite dai cambiamenti climatici? Come devono comunicare pubblicamente le proprie emissioni (e quanto dovrebbero essere severe le regole che regolano lo scambio di carbonio)? Come limitare le emissioni?
Mentre i lavori si protraevano ben oltre la scadenza ufficiale della COP26 (prevista per il 12 Novembre), alcuni dei delegati hanno cominciato a lasciare Glasgow. E c’è stato anche chi ha preso le distanze dal report finale dicendo che l’umanità non deve aspettarsi troppo da questo documento. Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica di New York che ha partecipato con la delegazione del Congresso alla conferenza sul clima a Glasgow, ha detto che la gente non dovrebbe aspettarsi che i governi o la conferenza COP26 risolvano la crisi climatica: “Se il mondo si affida alla COP e ai governi per fermare il cambiamento climatico, questo non accadrà”, ha detto la Ocasio-Cortez.
Forse il problema è proprio questo. Troppe le aspettative su questi incontri. Presentata come importante, anzi, fondamentale, la COP26 è stata preceduta da numerosi eventi in tutto il mondo. Incontri che hanno ribadito (se mai ce ne fosse stato bisogno) la necessità di interventi rapidi ed efficaci. Ma i maggior responsabili dei cambiamenti climatici globali non hanno mai fatto nulla di concreto per raggiungere rapidamente questo obiettivo. Molti dei paesi maggiori responsabili delle emissioni di CO2 non hanno presentato i propri programmi per tempo (alcuni non lo hanno fatto ancora oggi). E alcun di quelli che lo hanno fatto, hanno presentato piani a lungo termine e molto lontani dalle promesse fatte alla COP di Parigi. Paesi come Cina, India, Arabia Saudita, USA e altri hanno detto chiaramente che di eliminare (o ridurre) le emissioni non si parlerà prima del 2050/2060. Molti dei leader presenti hanno dichiarato di voler continuare ad utilizzare il carbone ancora per molto tempo.
Dopo l’uscita di Trump dalla Casa Bianca, ci si aspettava una spinta da parte del nuovo “inquilino” per un rapido ritorno agli accordi sottoscritti da Obama. Invece, la sua presenza è stata a dir poco deludente: tra un pisolino alla cerimonia di apertura e un peto in diretta, la sua presenza è apparsa discutibile. Anche gli accordi tra Cina e USA, i due maggiori responsabili emissioni di CO2 al mondo (solo loro sono responsabili di oltre il 40% delle emissioni di CO2 del pianeta (seguiti da UE e India)!), non hanno rispettato le aspettative.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres aveva riposto grandi speranze in questo documento: “Accolgo con favore il riconoscimento di questo fatto nell’accordo di cooperazione USA-Cina di ieri – un passo importante nella giusta direzione”, aveva detto Guterres. John Kerry e il suo omologo cinese, Xie Zhenhua, hanno presentato l’accordo come uno dei punti salienti di tutta la COP26: “Insieme abbiamo esposto il nostro sostegno per una COP26 di successo, compresi alcuni elementi che promuoveranno l’ambizione”, ha detto Kerry. Leggendo con attenzione il documento sottoscritto, però, appare estremamente vago. Anche troppo. La Cina ha rifiutato di aderire a un accordo per limitare il metano. Ha solo accettato di redigere un “piano nazionale” per affrontare il problema “metano”. E questa (come nel caso delle foreste) è tutta un’altra cosa. Una dichiarazione vicina ai comunicati ufficiali presentati a settembre scorso, quando Xi ha annunciato che la Cina non avrebbe raggiunto la neutralità del carbonio prima del 2060, con un piano per raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030 (quindi, fino ad allora, continueranno ad aumentare). E gli Stati Uniti, dal canto loro, puntano allo “zero netto”, ma non prima del 2050.
Lo stesso Guterres ha dovuto fare un passo indietro: “Le promesse suonano vuote quando l’industria dei combustibili fossili riceve ancora trilioni di sussidi, come misurato dal FMI” . “O quando i paesi stanno ancora costruendo centrali a carbone o quando il carbonio è ancora senza prezzo”, ha aggiunto. Guterres ha invitato ogni paese, città, azienda e istituto finanziario a ridurre “radicalmente, in modo credibile e verificabile” le proprie emissioni. “Abbiamo bisogno di impegni da attuare. Servono impegni per concretizzarsi. Abbiamo bisogno di azioni da verificare. Dobbiamo colmare il profondo e reale divario di credibilità”, ha detto il Segretario Generale delle Nazioni Unite.
Forse, la COP26 passerà alla storia proprio per questa parola: “credibilità”. Le promesse sull’ambiente pronunciate dai maggiori leader mondiali non sono più credibili. Come quella sulle foreste. Per distrarre l’attenzione dal tema centrale (combustibili fossili e di emissioni di CO2), i leader mondiali hanno pensato di concentrare l’attenzione su aspetti collaterali. Uno di questi dovrebbe essere l’accordo, sottoscritto da un centinaio di leader, di non tagliare più alberi a partire dal 2030. Una notizia sorprendente: tra i firmatari ci sono paesi come il Canada, gli USA, la Cina, la Finlandia o la Polonia e persino il Brasile (che continua a distruggere parti enormi di foresta amazzonica). Paesi che, da sempre, hanno fatto di questo settore una fonte di reddito primaria. Per questo, la notizia della firma di questo accordo è apparsa subito come eccezionale. Ma solo per chi non si è presa la briga di leggere con attenzione il documento originale. Nel documento si dice: “We, the leaders of the countries identified below […] commit to working collectively to halt and reverse forest loss and land degradation by 2030 while delivering sustainable development and promoting an inclusive rural transformation. We will strengthen our shared efforts to: Conserve forests and other terrestrial ecosystems and accelerate their restoration…” Tradotto: “Noi, i leader dei paesi identificati di seguito […] Ci impegniamo pertanto a lavorare collettivamente per arrestare e invertire la perdita di foreste e il degrado del suolo entro il 2030, promuovendo al contempo uno sviluppo sostenibile e promuovendo una trasformazione rurale inclusiva…”. Questo significa che i leader non hanno promesso di “non tagliare più alberi e foreste”, ma solo di impegnarsi “a LAVORARE COLLETTIVAMENTE per arrestare e …”. in pratica hanno fissato un “appuntamento” per un incontro nel quale, seduti attorno ad un tavolo, decideranno cosa fare. Tra nove anni.
Se questo non basta a comprendere quanto questo accordo è poco “credibile”, è bene ascoltare le dichiarazioni di alcuni dei leader firmatari del documento. Julius Maada Bio, presidente della Sierra Leone, intervistato dalla BBC, ha già evidenziato alcuni ostacoli alla realizzazione di questo progetto (che pure ha firmato). Maada Bio ha detto che è difficile sapere quanti alberi vengono tagliati. O da chi. Un modo come un altro, per far capire che sarà difficile rispettare gli impegni appena sottoscritti alla COP26.
Nel suo discorso di chiusura, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha detto: “Sappiamo cosa bisogna fare. Mantenere l’obiettivo di 1,5° [di aumento delle temperature medie globali, n.d.r.] a portata di mano significa ridurre le emissioni a livello globale del 45% entro il 2030. Ma l’attuale serie di contributi determinati a livello nazionale, anche se pienamente attuati, aumenterà comunque le emissioni entro il 2030”. Poi, lo stesso Guterres, citando l’ultima analisi delle Agenzia delle Nazioni Unite per il Clima e l’Ambiente, ha detto che i dati confermano che, anche con gli impegni presi alla COP26, “rimaniamo sulla buona strada per un catastrofico aumento della temperatura ben al di sopra dei 2° Celsius”. Un modo diplomatico per dire che le promesse dei leader mondiali di mantenere l’aumento delle temperature medie del pianeta entro 1,5° Celsius non basteranno. Mezzo grado può sembrare un’inezia ma non lo è.
Le promesse (tra le quali quella di contenere l’aumento delle temperature medie entro 1,5°) fatte dai paesi maggiori responsabili delle emissioni di CO2, non sono più “credibili”. Greenpeace UK e Unearthed hanno pubblicato un documento contenente oltre 32.000 “osservazioni” fatte da governi, aziende e altre parti interessate e destinate al team di scienziati incaricato di redigere il rapporto dell’IPCC. Da questo documento emerge che molti paesi “sviluppati” o legati al petrolio (Arabia Saudita e Australia insieme a Cina, Argentina, Norvegia, Giappone e molti altri) hanno “chiesto” più o meno dolcemente alle Nazioni Unite di minimizzare il problema e la messa al bando dei combustibili fossili. In altre parole di rallentare il processo di eliminazione delle emissioni di CO2. Alcuni paesi “ricchi” avrebbero addirittura messo in discussione anche il sostegno finanziario agli stati più poveri per passare a tecnologie più verdi (altro tema fondamentale della COP26). Documenti trapelati rivelano che i paesi produttori di combustibili fossili e carne fanno pressioni contro l’azione per il clima – Unearthed (greenpeace.org)
Ma non basta. Per non correre rischi, i maggiori responsabili delle emissioni di CO2 hanno piazzato oltre 500 influencers (molti riconducibili a compagnie petrolifere) ai tavoli della COP26. Gli attivisti di Global Witness hanno esaminato l’elenco dei partecipanti agli incontri (pubblicato dalle Nazioni Unite all’inizio dei lavori) e hanno scoperto che, tra questi, ben 503 erano soggetti riconducibili ad associazioni di categoria o gruppi a favore delle compagnie petrolifere e del gas. “L’industria dei combustibili fossili ha trascorso decenni a negare e ritardare un’azione reale sulla crisi climatica, motivo per cui questo è un problema così enorme”, ha detto Murray Worthy di Global Witness. “La loro influenza è uno dei motivi principali per cui 25 anni di colloqui sul clima delle Nazioni Unite non hanno portato a reali tagli alle emissioni globali”. Un impegno massiccio: uno di questi gruppi avrebbe portato a Glasgow addirittura 103 delegati molti dei quali legati ad un’associazione sostenuta da importanti compagnie petrolifere che promuovono la compensazione e il commercio delle quote di emissioni di carbonio come un modo per consentire loro di continuare a estrarre petrolio e gas. “La sua agenda è guidata dalle compagnie di combustibili fossili e serve gli interessi delle compagnie di combustibili fossili”, ha detto Worthy.

Già, il fenomeno della “compensazione”. Alla COP26 non se ne è parlato seriamente. Non lo ha fatto Guterres. E nemmeno il presidente della COP26, Alok Sharma. Anche lui ha dovuto ammettere che, nonostante lo spirito di cooperazione e civiltà dimostrato durante i negoziati, “non si è ancora arrivati” a trovare un accordo sulle questioni più critiche. multinazionali e paesi emettitori continuano a utilizzare questo sistema per superare i limiti. Ormai è una prassi consolidata e una macchina ben oliata, utilizzata da tutti i maggiori responsabili delle emissioni di CO2 al mondo. Gli USA. L’UE (mentre alla COP26, i leader europei presentavano i loro piani “verdi” e promettevano misure per salvare il pianeta, sul sito ufficiale dell’UE venivano pubblicati i programmi per la compensazione delle emissioni per il periodo 2021/30, la cosiddetta Fase IV EU Emissions Trading System (EU ETS) (europa.eu). Anche la Cina ha appena avviato un proprio sistema di compensazioni.
Tutto questo rende le promesse dei leader alla fine della COP26 poco “credibili”.
C’era grande attesa per la pubblicazione del documento finale della COP26. Un “pezzo di carta” condiviso da tutti i leader presenti a Glasgow con promesse credibili su cosa vogliono fare per salvare l’ambiente di tutti. Molti leader mondiali hanno riempito le prime pagine dei giornali con le loro promesse di intensificare i propri sforzi di ridurre le emissioni nei decenni futuri. Belle parole. Ma per molti paesi, l’ora zero è oggi. Per loro è in gioco l’esistenza stessa. Per loro serve un’azione immediata. Niente bla, bla, bla, belle promesse come quelle inserite nel documento finale della COP26.