Antonino Laspina lavora da quarant’anni col mondo del business ma quando ci accoglie nel suo ufficio, nell’elegante sede dell’ICE tra Park e Madison Avenue, potremmo scambiarlo per un direttore di un museo; nei toni come nei gesti mostra la sensibilità che sembra più quella del critico d’arte. Ecco che il Direttore dell’ Italian Trade Agency per tutti gli USA ci fa ammirare il De Chirico che adorna una parete del suo ufficio a New York e poi, con disinvoltura, parla degli scavi archeologici in Sicilia di Morgantina e Piazza Armerina, lui nato proprio in quella zona, ad Aidone. Laurea all’Università di Catania, Laspina dagli anni Ottanta ha avuto come missione di promuovere l’Italia all’estero e soprattutto le sue esportazioni. E’ stato molto in Asia, arrivando a dirigere l’ICE sul mercato della Cina. A New York è dagli inizi della pandemia, un incarico che sembrava quindi per lui tutto in salita. E invece… I dati che ci fornisce sono impressionanti, uno su tutti: toccati 57 miliardi di dollari di export italiano sul mercato USA.

In questa lunga intervista, cerchiamo di farci spiegare da Laspina i segreti della forza di questo successo italiano e se il mercato USA sia destinato a rimanere quello dove l’export italiano avrà ancora larghi spazi di crescita.
Il successo del Made in Italy nel mondo: a chi spettano i meriti e quanto in percentuale al governo italiano?
“Io ho una teoria su questo, non è che il Made in Italy lo coltivano solo le aziende. Anche tra le più grandi, non è la sommatoria delle loro attività. Il Made in Italy o brand Italia è una sommatoria di tanti fattori, in parte determinati in epoca recente ma quando si parla di brand Italia si indicano secoli ed esempi di eccellenza che sono stati presentati al mondo. Poche settimane fa abbiamo organizzato una cena a New York con la cucina italiana al tempo dei Medici ed è evidente che lì c’è non solo il Rinascimento delle arti e del pensiero ma c’è anche il Rinascimento di un modo di concepire l’alimentazione, la cucina… Quindi Brand Italia o Made in Italy non è certamente la sommatoria di azioni che sono state fatte in epoca recente. È un insieme di Heritage che abbiamo. E certo c’è anche la bravura di chi negli ultimi decenni ha avuto la sensibilità di costruire attività promozionali per l’Italia, anche attraverso eventi come l’EXPO di Milano e altri ancora. Il brand Italia nasce anche con il grande successo delle Olimpiadi di Roma del 1960. È quindi il risultato dell’azione congiunta di molti player negli anni.
C’è stata una fase in cui di questo non si era neanche consapevoli, non c’era progettualità. Negli anni più recenti tutto il sistema istituzionale e imprenditoriale è stato più consapevole del fatto dell’attenzione al brand Italia. Secondo me una svolta forte è venuta con lo scandalo del metanolo nel vino, negli ultimi anni ’80, quando è venuta fuori la consapevolezza che chi opera male fa danno a tutti gli altri. Nasce così un Brand Italia che tutti devono curare. Io lo immagino come una specie di pianta a cui tutti devono contribuire. Il successo a mio avviso è dato da tre fattori. Il Brand Italia che tutti devono coltivare. Poi c’è il brand territoriale che in alcune realtà è molto forte, pensiamo alla realtà toscana ma anche quella siciliana in questo momento. A volte questi brand territoriali sono forti per alcuni settori, per esempio il brand Campania per la cucina ma anche la sartorialità, non la moda ma la sartorialità. E poi c’è un altro contributo importante che è quello aziendale. E la cosa interessante per noi è che non bisogna essere per forza dei giganti in termini di produzione. Perché noi abbiamo dei brand, cosiddette piccole multinazionali, che anche in termini di fatturato a volte non sono impressive, però la loro capacità di essere percepiti come brand ne fa dei giganti, dei colossi della comunicazione. L’azione delle Istituzioni per affermare il brand Italia è stata determinante”.

Però non sono anche prede facili? Per esempio, ultimamente molti marchi italiani sono stati comprati da multinazionali che stanno lontane, non solo americane ma anche cinesi…
“O francesi”.
Ecco specialmente i francesi con il lusso, si sono comprati i competitori italiani praticamente.
“Però lì c’è anche un altro problema. Intanto sono entità private, quindi è il mercato che determina le scelte della proprietà. Molte di queste imprese erano anche sottocapitalizzate, erano arrivate quasi alla fine della strada per fattori familiari, ricambi generazionali che non c’erano, difficoltà ad essere inseriti in ambiti più larghi e le problematiche della logistica e della comunicazione possono essere gestite solo da chi ha fatto il salto. Quindi per molti dei nostri marchi, quando c’è stata l’acquisizione, questa li ha rilanciati in moltissimi casi. Poi spesso l’attività è rimasta in Italia. Cioè il gruppo che ha acquisito è stato consapevole di questa forza che è il made in Italy. Soprattutto nel campo della moda, del food, di altri settori dove è importante la percezione della qualità. Non è stato lo smantellamento di un’attività che è stata trasferita poi all’estero. Anzi una delle attenzioni che c’è stata anche da parte dei grandi gruppi è stata quella di dire “se io vado a sradicare quel brand da quel territorio, da quella manovalanza, da quella artiginalità immediatamente il consumatore non lo percepisce più come un prodotto made in Italy e quindi rimane una scatola vuota””.
Cioè Gucci deve rimanere a Firenze, anche se la proprietà sta da qualche altra parte. Perché solo così conserva il suo valore aggiunto.
“E’ così potrei citarle tanti altri primati. Negli ultimi anni le scelte intelligenti dei grandi gruppi sono state quelle di dire offriamo una piattaforma logistica e distributiva al gruppo italiano in quanto brand grande. Però i valori considerato il mondo erano ancora piccoli. E proprio in virtù del fatto che sono stati inseriti in questi meccanismi che sono diventati grandi e i valori sono cresciuti. E questo ha fatto sì che, anche se con tante problematiche, i nostri centri che allora chiamavamo i distretti siano rimasti ancora a produrre per i grandi marchi. Quindi le Marche continuano a fare sia il prodotto di altissima qualità per i grandi marchi che il prodotto per il marchio italiano. La Toscana fa la stessa cosa. La Liguria fa ancora i prodotti agroalimentari di grandissima qualità anche se le aziende sono rimaste piccole. Tutto fatto in maniera tale che accanto ai grandi gruppi l’Italia abbia sempre la capacità di sviluppare nuovi prodotti. Lo stimolo arriva dal fatto che quando le grandi multinazionali hanno preso i grandi marchi che avevamo, da sotto sono apparse nuove aziende che però forse puntano di più sulla qualità. Infatti, oggi la qualità la troviamo diffusa anche nei produttori di piccole e medie dimensioni”.
Tutti parlavano della pandemia, dopo la pandemia, … quindi stiamo battendo il record di esportazione del 2021 che ricordiamo non è post-pandemia, siamo ancora nella pandemia. Ecco, lei se lo aspettava?
“Devo dire che da alcuni settori certamente, perché per esempio nel settore del food è chiaro che è intervenuta una rivoluzione. Un paese come gli Stati Uniti dove milioni di persone consumano il pranzo, ma anche addirittura la colazione, e poi anche la cena fuori, le strategie di riapertura dei ristoranti drinviate e via di seguito, è chiaro che ci ha privato di uno dei canali più importanti della nostra distribuzione. Perché, nella fascia alta, i nostri prodotti non raggiungono la catena del deli shop, nella grande distribuzione di massa hanno difficoltà ad entrare perché quando messi a confronto con quello che c’è sugli scaffali…”
Cioè è un prodotto di alta qualità, molto più caro…
“Sì, quindi è chiaro che viene ignorato. Per noi la ristorazione era un canale molto importante. Se la ristorazione con questi apri e chiudi non riesce a decollare, è chiaro che si poteva avere il timore che i risultati non fossero interessanti. Quello che è stato invece estremamente interessante, e forse inatteso, è che ad un certo punto gli americani – per effetto anche di un’organizzazione efficientissima che ha subito delle problematiche solo all’inizio, quelle della logistica, della fornitura dei supermercati, o delle consegne a domicilio degli e-commerce (superato quel momento di sbandamento che è durato probabilmente qualche mese) il sistema si è attrezzato affinché rispondesse adeguatamente alle domande degli americani che oggi con l’aiuto del web e di tutte le informazioni hanno cominciato a pensare che si potesse anche cucinare a casa. E se non si cucinava a casa si poteva anche fare l’ordine da aversi a casa e quindi complementare ad alcuni prodotti che arrivavano con l’e-commerce con il prodotto che arrivava dal ristorante sotto casa che era rimasto aperto. Però questo ha determinato per noi, che sulla qualità abbiamo fatto la nostra scommessa, una crescita. Quindi, nel corso del 2020 siamo cresciuti. Nel 2021 addirittura il recupero in parallelo della ristorazione, e comunque l’americano che ha trovato quasi piacere nel ritornare, o nel cominciare, a cucinare a casa, sta determinando questa interessante espansione del nostro prodotto. L’Heritage del Covid sarà proprio questo. Noi saremo entrati nelle case degli americani più di quanto lo siamo stati nel passato, perché l’informazione su internet ci ha favorito. Pensiamo per esempio, che se dieci anni fa si voleva pensare a delle informazioni sulla carbonara, sul cacio e pepe, e su una serie di prodotti, sarebbe stato difficile trovarle. Invece ormai viviamo nell’era dell’informazione, e quindi si è rimossa quella barriera psicologica, culturale di chi si cimentava su un piatto della tradizione culinaria italiana.
Quindi internet aiuta a conoscere meglio il prodotto.
“La rivoluzione digitale ancora in corso, per noi è stata fondamentale. L’Italia gode della rivoluzione digitale in tutti i sensi, perché senza rivoluzione digitale non ci sarebbero stati gli ordini ai nostri prodotti online”.
Di questi prodotti italiani che sono cresciuti nel 2021, qual è secondo lei non solo quello che ha avuto più successo, ma qual è il settore che lei vede che ha ancora grandi margini di crescita.
“Tra tutti la pasta. Cioè la pasta è diventata friendly. Era una cosa che gli americani erano abituati o a cucinare male, a casa, o a consumare al ristorante. Con questa rivoluzione digitale dell’informazione secondo me la pasta è diventata un prodotto a cui gli americani si sono avvicinati di più e hanno capito che probabilmente c’era anche il piacere nel cucinarla a casa. Quindi la pasta come una specie di base, di platform su cui tu puoi sbizzarrirti come vuoi con una grande varietà di salse su cui puoi ricreare i piaceri e i sapori che avevi provato in Italia. Quindi la prima puntata l’ha vinta la pasta. In seconda battuta certamente l’olio d’oliva. I nuovi valori quali sono? La sostenibilità ambientale, la naturalezza del prodotto, e poi c’è stata una grande rivoluzione negli USA allo stesso tempo che è quella del prodotto sano, healthy. Mangiare a casa ha fatto capire agli americani che ci sono dei percorsi verso l’alimentazione sana e salutare che potrebbero anche essere un po’ in contrasto con quelle che sono le abitudini che si sono create con un certo tipo di ristorazione. E quindi, la gamma dei prodotti italiani che è cresciuta, non a caso, è quella che rappresenta non direi la dieta mediterranea nel senso più ampio, ma quattro o cinque prodotti che sono i pilastri della nostra alimentazione italiana … tra questi, per esempio, anche formaggi e salumi. Perché si è percepito questo senso della purezza del prodotto, di questa nitidezza e chiarezza del prodotto e di quello che si consuma. Perché si scoprono quei prodotti che sono poi figli del territorio italiano, e quindi i formaggi e i salumi che sono originari italiani si percepiscono come il giusto complemento per organizzare un nuovo modo di mangiare italiano”.

Perché qualche prodotto italiano magari ha più difficoltà di penetrazione in un mercato come quello degli Stati Uniti? Se c’è.
“Sono sorpreso dal fatto che il miele italiano, per esempio, non c’è. Probabilmente noi abbiamo un’altissima qualità nel miele e quindi la concorrenza che arriva da altri paesi con qualità e prezzi bassi, non ha permesso al miele di poter affermarsi. Oppure per esempio, se vogliamo, le confetture, le marmellate, secondo me potrebbero avere un’ulteriore crescita perché il processo produttivo, il concetto di marmellata all’italiana è qualcosa che oggi può trovare risposta ai nuovi valori come la sostenibilità ambientale. Noi abbiamo i frutteti. Noi coltiviamo la frutta, la processiamo, facciamo le marmellate. È più logico che su realtà come queste abbiamo delle possibilità di crescita. Perché una cosa è la marmellata che viene dalla Svezia, piuttosto che dall’Inghilterra. E ci sono questi prodotti che arrivano sul mercato americano. O di altri paesi su cui naturalmente ci sono dei dubbi sulla sostenibilità ambientale della coltivazione. Perché laddove le condizioni metereologiche sono estreme c’è bisogno di insetticidi, di trattamenti.
Quindi ci sono dei settori su cui possiamo ancora lavorare ma un’altra cosa è il prodotto italiano che combina tradizione e innovazione; all’interno dei nostri settori si stanno aprendo delle finestre ancora più sofisticate. Per esempio, all’interno della pasta si stanno cominciando ad aprire delle opportunità interessanti sui grani antichi”.
Come quelli siciliani…
“Esatto. Quindi per noi è una continua sfida per riposizionarsi. Sempre nella fascia alta. Introducendo dei meccanismi che sempre più soddisfano queste nuove tendenze di mercato. L’approccio green, l’approccio salutare nel cibo, l’approccio della sicurezza nell’uso dei prodotti, quindi senza parlare solo di cibo, per esempio, il futuro dei nostri mobili, dei nostri arredi è destinato ad essere considerato sempre di più perché siamo quelli che hanno fatto la scelta sulla sostenibilità dei mobili. Quindi abbiamo eliminato le vernici tossiche, i processi inquinanti”.
Siamo avanti.
“Siamo avanti. Siamo avanti a volte per scelta, a volte perché ci siamo imposti dei protocolli molto rigorosi. Pensi per esempio alle nostre scelte fatte anni fa nel settore della pelletteria, della concia, per salvaguardare l’Arno, per salvaguardare i nostri fiumi, per salvaguardare i nostri territori. Siamo stati quelli che si sono dati delle regolamentazioni più strette e più rigorose, molto spesso, delle normative comunitarie. Il risultato è che oggi possiamo dire che tutto il nostro processo di pelle porta alla migliore pelle del mondo da essere usata dai consumatori e anche da chi fa poi i prodotti, ma allo stesso tempo non ha ricadute negative sul nostro territorio. Perché? Perché siamo anche il paese che dal turismo deve trarre quella quota di PIL e di benessere che è destinata a crescere sempre di più. E quindi possiamo mettere anche sul mercato questa immagine che a me piace moltissimo. Cioè siamo il paese dove si producono Ferrari, Lamborghini, Maserati, Ducati, però poi in questo stesso territorio abbiamo eccellenze come il parmigiano, il prosciutto di Parma, i vini…”

Cioè altissima tecnologia…
“Che ha saputo salvaguardare il territorio, i terreni, perché poi abbiamo i prodotti che non vanno in alcuni mercati. Abbiamo prodotti che sono Worldwide. Cioè, il parmigiano reggiano e altri formaggi sono l’equivalente della Ferrari”.
Proprio perché ha parlato di parmigiano e di olio d’oliva, vorrei parlare della contraffazione, dello sfruttamento del made in Italy. Per esempio, vicino a casa mia, in un supermercato a Brooklyn, vedo un olio Palermo, ovviamente mi dico ah vediamo che olio è, poi giro la bottiglia e vedo che è turco. Qualcuno però pensa che il cosiddetto “Italian Sounding” sia un bene, perché dopotutto fa da traino all’originale. Lei che ne pensa di quest’idea?
“Intanto la premessa è che sia un danno, punto. Perché noi subiamo un danno e su questo non ci sono dubbi. Ho vissuto per tanti anni in Cina e quindi so che bisogna lavorare molto per staccare la gente dalle brutte abitudini e portarle alle buone abitudini. Quindi quella è una scommessa, un challenge per noi. Certamente è un fattore che evidenzia il nostro successo ma su cui non possiamo cullarci dicendo che le dinamiche alla fine porteranno comunque a consumare passando dal parmigianito (argentino) al parmigiano. La dove abbiamo avuto successi è perché abbiamo lavorato. Perché il sistema pubblico e privato hanno lavorato tantissimo, le imprese e i consorzi hanno cercato di comunicare. C’è una strada che secondo me è quella più importante, quella dell’educazione del consumatore e del trader”.
Non potrebbe esserci un bollino made in Italy italiano generale, dal vino al formaggio, che possa essere imposto…
‘Si però anche quello da solo non è sufficiente. Perché quello che conta è l’education. Noi, infatti, come ICE siamo impegnati con il sistema dell’impresa e dell’associazione dei consorzi a fare dei seminari di educazione perché gli esperti possano evidenziare la differenza sostanziale. Perché una delle problematiche di fondo qual è? Che molti lo riconducono solo ad un discorso di origine, cioè come se noi stessimo difendendo solo l’origine ma poi, siccome si parla di un processo industriale, è diverso. Perché già anche la borsa di pelle si porta dietro una sua storia. Non a caso parlavamo di Toscana, di concerie sull’Arno, di artigianalità, di roba che arriva dal Rinascimento se non ancora prima in epoca medioevale, con le botteghe artigiane. Dobbiamo semplicemente non pensare che tutto possa avvenire perché cresce il potere d’acquisto e quindi ci si sposta immediatamente sul prodotto autentico. Perché questo avvenga bisogna lavorare, ci abbiamo lavorato e dobbiamo lavorarci ancora. Poi, l’education attraverso sia la figura del trader, il buyer, che deve capire che non è un prodotto meramente industriale. È un prodotto che è il risultato di processi, di protocolli rigorosi, di trasparenze che noi possiamo assicurare. Quindi l’education è prima di tutto al trader, cioè al soggetto che decide di comprare e distribuire. Il prodotto che viene chiamato con un nome italiano ma che viene fatto in uno stato degli Stati Uniti, per quanto si avvicini al prodotto, è diverso. Il latte di quelle mucche è completamente diverso, l’aria che respirano quelle mucche è completamente diversa, i batteri che intervengono nel processo di lavorazione sono completamente diversi. Quindi è un altro tipo di prodotto”.
Ma il fatto che accada di più con il prodotto italiano rispetto a quello francese o tedesco o quel che sia è dovuto al fatto che proprio tutti vogliano imitare gli italiani o perché l’Italia si difende meno o ha meno difese?
“Anche la Francia è vittima di contraffazione. Gli Stati Uniti sono il paese che consuma più Brie e Camembert locali forse al mondo. Anche i francesi hanno i loro problemi. Il problema è che noi siamo probabilmente il paese che ha la più alta gamma di prodotti che collochiamo sul mercato in una fascia di qualità. Quindi è la spia del nostro successo e dobbiamo educare il consumatore. Per spiegare appunto loro determinati prodotti. Molto spesso il consumatore, anche quello abbiente, pensa che sia in fondo un prodotto industriale e che quindi quello che conta è l’apparenza. Dobbiamo invece spiegare che dentro quel prodotto ci sta l’Italia. Dentro le olive di Castelvetrano ci sta una qualità di olive che non sono verdi perché qualcuno le ha dipinte e sono più verdi delle altre, ma perché sono una varietà che risponde ad un certo tipo di territorio e che molto spesso se vengono spostate in un altro territorio perdono quelle caratteristiche”.
Parlando di Castelvetrano, lei è un uomo del sud, siciliano, ecco si parla sempre del rilancio delle imprese del Sud. Eppure, l’export come percentuale proveniente dalle regioni meridionali continua a non essere significativo. Ecco, secondo lei negli USA il prodotto italiano del Sud è un prodotto che potrebbe andare molto meglio di come sia andato finora e potrebbe quindi fare da spinta per far salire questa percentuale?
“Probabilmente, anzi sicuramente, negli Stati Uniti già performa meglio che in altri stati. Perché naturalmente si ritrova un consumo inizialmente italiano e poi si espande come tutti gli altri prodotti. Perché è chiaro che uno degli elementi caratterizzanti sul nostro territorio è che da prodotto consumato dalla nostra etnia è diventato un prodotto consumato dagli Americani. Anzi, in una prima fase era dentro alla ristretta cerchia di quelli chiamati una volta Wasp. Da quella ristretta cerchia ha cominciato a conquistare fasce alte della popolazione, quelli che hanno capacità di spesa, e poi anche demograficamente si è andato ad allargare. Oggi che tu sia Irish o di origine tedesca o dell’Est Europa, il cibo italiano, la moda italiana, il design italiano entra dappertutto. Quindi è diventato un prodotto accolto con alta recettività dal consumatore americano di qualsiasi estrazione. Anzi vediamo che, man mano che i nuovi arrivati sul mercato americano si vanno a sedimentare e anche loro diventano americani e in quanto americani sono sensibili al prodotto italiano. Quindi secondo questo aspetto la percezione è di capire che siamo diventati un punto di riferimento per il consumatore americano. La nostra scommessa è quella di uscire dal grande successo che abbiamo registrato nel tri-state e in qualche altro stato, che potrebbe anche essere un po’ la Florida, dove ci sono un po’ di italiani, i quali sono stati la scintilla. Però solo con loro i numeri non sarebbero stati quelli che sono stati. La vera scommessa è quella di portare più Italia dentro agli stati, per esempio, che possono essere nel Midwest. Un altro obiettivo per esempio è il Texas, cioè la decima potenza economica al mondo che ancora ha una sottorappresentazione di quella che è la nostra forza commerciale”.
Ecco come si fa a conquistare il Texas o comunque le zone degli USA meno battute?
“Ci stiamo già lavorando, siamo all’opera perché appunto abbiamo con i nostri uffici il presidio del territorio. Quindi ICE Houston ormai da quasi un decennio è stabilmente un presidio del Texas. I cinque uffici non a caso hanno un’ubicazione strategica. Abbiamo Chicago per il Midwest, New York che fa da coordinamento, naturalmente Miami che segue e presidia questo nuovo fenomeno della Florida dove c’è un fermento che deriva soprattutto in epoca pre-covid, ma anche dopo il covid da spostamenti di persone ad alta capacità di spesa, che si spostano in Florida. Che non sono più i pensionati di una volta ma che sono altri soggetti. Houston presidia tutta la zona del Texas, espandendosi anche in Arizona e altri territori. E poi c’è la California, che seppure abbia registrato dei buoni successi, comunque, continua a performare al di sotto del potenziale”.
Perché uno poi deve considerare gli stati del nord west, l’Oregon, Washington…
“Si, infatti, non a caso noi una volta avevamo l’ufficio a Seattle. L’idea è di avere il presidio del territorio e poi stiamo lavorando perché quante più attività promozionali vengano portate sul territorio. L’education l’abbiamo già messa in moto con alcune attività nel settore del food, destinate ad educare sommelier, trader, chef, perché capiscano le qualità intrinseche che ci sono dentro al nostro food. Ma abbiamo dei programmi che nei prossimi anni ci porteranno a realizzare degli eventi del sistema moda e del sistema food proprio su quei territori, perché è lì che dobbiamo andare a realizzare uno di questi aspetti che sono per noi indispensabili, cioè la sfida della distribuzione. Tre sono le sfide che abbiamo per poter crescere. Una è quella della digitalizzazione, nel senso che le nostre imprese devono capire che questo ormai è un mercato nel quale nell’arco di un decennio sarà 50/50 online e offline. Ora è chiaro che non tutto si può pensare che passi direttamente, come qualcuno pensa, dall’Italia agli Stati Uniti. Perché comunque esiste ancora il divieto del cross border. Però la nostra azienda deve sviluppare delle skill, e sta crescendo, in termini di digital marketing. Quindi deve migliorare molto la comunicazione con i suoi clienti, con i suoi trader. Deve saper comunicare meglio e di più sui social. Deve disporre di un sito che diventa veramente la presentazione dell’azienda, che non può essere la trasposizione del catalogo di una volta dentro al sito web. Digital è un’altra cosa”.
È l’immagine proprio dell’azienda.
“E poi soprattutto l’interattività. Un’azienda deve essere capace di cogliere tutte le occasioni di stare sulle piattaforme. Le vetrine virtuali devono saper essere colte, perché è attraverso la vetrina virtuale che tu vai a bilanciare la vetrina fisica che è quella della fiera. Quindi importante per questo mercato sarà il salto che è richiesto per il digital trade/marketing. La seconda è quella della comunicazione. Perché? Perché se questo mercato darà successo al prodotto che incorpora i nuovi valori, sostenibilità ambientale e sociale, per esempio, cioè che il prodotto che tu fai non sia il risultato di sfruttamento, non è il risultato di un’impresa di 10.000 persone che fanno quello che fanno in un lontano paese dell’Asia. Questi valori del green, del rispetto della natura, del riciclaggio, dell’economia circolare richiedono che tu sappia comunicare, e quindi devi fare un salto anche nella comunicazione. Con i nuovi tools della comunicazione, ma anche con i contenuti. Cioè non è più necessario fare bello e ben fatto. Forse appunto la terza parola è nel rispetto della natura, nel rispetto delle persone. Sostenibilità a tutto tondo. E noi lì siamo probabilmente anche apprezzati per come siamo organizzati nel nostro sistema produttivo. Per un’azienda italiana risulta abbastanza facile comunicare questo principio. Quindi le Marche hanno la struttura aziendale, sotto si lavora, sopra si vive. In Veneto la stessa cosa. Cioè la produzione vinicola non è fatta su grandi tenute, ma molto spesso l’abitazione, la cantina è al centro della tenuta. Uguale per Sicilia e Toscana. Però comunque dobbiamo accrescere la comunicazione. La necessità di nuove storie, di uno storytelling che sappia raccontare meglio. E questo mi consente di dire che forse il sud deve sapersi raccontare meglio. Il sud è cresciuto ma deve crescere molto su questi fattori. Il terzo fattore è la distribuzione. Purtroppo, noi non disponendo delle grandi catene della distribuzione come invece hanno i francesi, o di grandi catene alberghiere, quelle che chiamerei le portaerei che portano il prodotto in giro, abbiamo questo tallone d’Achille. Che è quello di dover individuare, soprattutto per il prodotto di qualità, i più idonei canali distributivi”.
Ed è quello che è il vostro lavoro, di aiutare chi ha problemi con la distribuzione.
“La vera strategia, che abbiamo introdotto da anni e che sta dando grandi risultati, è quella di collaborazione con la GDO, la grande distribuzione organizzata, sia nel food che nella moda e nei gioielli. Questa attività per il food è basata su Chicago, ma opera Nationwide. La GDO ci sta portando ad attivare contatti con i grandi e i medi distributori, quelli che hanno catene di 300, 400, 2000 punti. Facciamo anche attività con Costco, per esempio. Abbiamo fatto attività con Walmart nel settore del food, ma anche nel fashion e gioielli. Abbiamo fatto un’attività, nella moda, anche con Saks 5th Avenue. L’idea qual è? Che a queste nostre imprese dobbiamo offrire un atterraggio molto solido attraverso questi canali distributivi dove, con dei punti vendita che sono centinaia e centinaia si può anche pensare di arrivare, atterrando magari a New York o a Chicago, dove ci sono molte di queste catene e poi avere il rimbalzo in uno di queste centinaia di punti vendita in tutto il Midwest, in California, in Texas”.
Questo è quando un’azienda media o piccola italiana ha bisogno dell’ICE? Di aiuto su come arrivare in questo paese.
“In linea di massima devo dire che l’azienda piccola e media ci segue, anche perché poi ci sono delle attività promozionali che gli addetti ai lavori seguono molto di più del general public. Che ci siano centinaia di buyer che vengono inviati in Italia con delle risorse pubbliche, le aziende lo sanno. Perché per esempio recentemente si è svolto “Tutto Food” come anche “Vinitaly” e li sono dozzine e dozzine gli operatori che noi selezioniamo e invitiamo con fondi pubblici. Quindi le aziende ormai vanno in fiera non improvvisando. Anche questa è una delle filosofie che è cambiata, cioè la fiera è diventata un’altra cosa. Intanto molto spesso non si riduce al momento “in person” di quei tre giorni, perché molto spesso si apre una vetrina virtuale un mese prima. Per cui l’azienda è visitata dal potenziale visitatore. Molto spesso rimane poi aperta la piattaforma per un mese dopo. E quindi si allungano i tempi di interazione. Ma poi ci sono questi grandi numeri che sono assicurati dalla nostra attività di selezione dei buyer e giornalisti, e da un crescente numero di buyer che vanno alle fiere autonomamente”.
Quindi le fiere in Italia.
“Però molto spesso alle fiere negli USA, oltre ad organizzare padiglioni italiani, per esempio al “Fancy Food” noi invitiamo anche i buyer dal resto degli Stati Uniti a venire a New York”.
Lei ha avuto un’esperienza nei mercati asiatici e soprattutto in Cina. Non so, facendo dei paragoni, rispetto agli USA perché è più difficile penetrare il mercato cinese? O non lo è?
“Intanto voglio dire che le distanze culturali sono abissali. L’internazionalizzazione e la globalizzazione hanno avvicinato il mondo. Però comunque poi restano delle differenze culturali che sono incredibili. Anche l’Asia è stata nel suo complesso difficile. Noi negli Stati Uniti abbiamo il più alto surplus commerciale al di fuori del mercato europeo. Abbiamo chiuso il 2019 con 30 miliardi di surplus commerciale. Sono valori che in altri paesi come in Asia non esistono”.
Gli americani non ce lo fanno pesare?
“La società americana concepisce questi nostri prodotti come prodotti di qualità, cioè non sono una concessione diciamo al lusso, è proprio qualità. Nel piccolo artigiano che deve emergere nel suo contesto per farsi strada, a quello che ormai è affermato, esiste quello che io chiamo l’ossessione della qualità. Esiste cioè una consapevolezza del fatto che se lui non fa una marmellata di un certo tipo lui non riesce neanche a venderla al supermercato che sta dietro l’angolo. E quindi questa ossessione che si è installata nel processo produttivo per noi è una garanzia. Perché anche quando si va a delle fiere internazionali, che possono essere a Seattle o anche altre presentazioni all’estero di altri prodotti abbiamo come dire una buona possibilità che il nuovo importatore ci percepisca se non come numero uno almeno tra i tre che sta considerando. Ma questo si è costruito, appunto, nel tempo. Non è che come si pensa, molto spesso nei nuovi mercati, sia tutto legato alla comunicazione”.
Per riassumere: il mercato asiatico più matura e più sarà un mercato pronto all’Italia.
“Dobbiamo attivare determinate dinamiche. Scatta il meccanismo del Made in Italy ed è la prova che la speranza che noi abbiamo di continuare la nostra espansione sui nuovi territori. Le dinamiche economiche USA ci porteranno, lavorando bene naturalmente, a crescere nelle città come Minneapolis, Houston, Dallas, Austin, dove si è tenuto il gran prix di Formula 1, cioè un mondo che si sta internazionalizzando, che non è più diciamo isolato, perché la Formula 1 significa essere parte di un circuito global o Città come Phoenix. Cresciamo dove ricorrono tre elementi: il primo, e non può che essere così, è quello della disponibilità economica; il secondo elemento è quello della education. Il consumatore dei beni italiani deve avere una visione del mondo, del contesto in cui si trova che lo deve portare a capire i discorsi di qualità, salutismo, differenziazione prodotto che arriva da un territorio piuttosto che da un altro e in questi soggetti con l’education si fanno strada anche quei valori di cui parlavamo, della sostenibilità. E il terzo fattore è questo concetto d’apertura e di internazionalizzazione. Sempre più queste popolazioni si spostano e viaggiano. Ma sta anche succedendo che le popolazioni che stavano sulla costa stanno andando verso queste metropoli. Comunità di imprenditori, consumatori, professionisti che hanno vissuto a New York e nei punti dove già il made in Italy era conosciuto si stanno spostando, e fertilizzano altrove. Ma un altro elemento interessante ci viene dalla nostra presenza nel resto del mondo. Non è indispensabile venire in Italia per rendersi conto di quanto sia importante e diffuso consumare italiano. Perché se la notizia dell’altro giorno è che in Francia la mozzarella ha superato il consumo del Camembert, questo è un dato importante. Significa che io cittadino americano o di altri paesi, se mi reco a Parigi ecco che i segni della leadership italiana li percepisco anche lì. Non è più un fatto di brasserie o di caffè alla francese. Cioè io vengo a Parigi e percepisco che c’è un altro paese, l’Italia, che si sta ritagliando la sua parte”.
È stato detto, se il made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo Coca Cola e Visa.
“Se io vado a Londra, non ho più la Londra di 30 anni fa. Io vado a Londra e mi rendo conto che su quel territorio, oltre ai marchi inglesi che una volta avevano successo, oggi c’è una colonizzazione del brand italiano, del prodotto italiano. Poi ancora di più se un americano va in Oriente, si rende conto che lui va in Oriente ma poi alla fine trova tanta Italia in questi paesi. Se va in Medio Oriente, a Dubai, nel Golfo trova tanta Italia”.
Direttore lei ha fatto un quadro ottimista. Sembra che…
“Si ma le do anche i dati”.
Ma ci crediamo infatti e siamo anche contenti. Ma siccome uno si deve preparare alle tempeste e quest’ultima della pandemia alla fine non ci ha buttato a terra, anzi abbiamo recuperato. Ora proprio a Roma c’è stato il G20. Dunque, il mondo, secondo l’ONU etc., non sta bene. Non vogliamo farle fare geopolitica, ma lei che tra l’altro ha lavorato da Pechino: ma tutte queste tensioni possono far male al made in Italy?
‘Siamo alla vigilia di una decisione sulla Bidenomics che caratterizzerà questa presidenza. Se le risorse che il governo americano andrà a mettere nelle attività che sono state annunciate, noi potremo ulteriormente avere degli elementi di crescita. Quello che dobbiamo considerare è che questo è un mercato dove i consumatori associano tanta moda e tanto food all’Italia. Ma noi abbiamo le voci della medium e high tech che sono di primo livello. Noi facciamo 9 miliardi di dollari di export nel sistema moda ma ne facciamo più di 12 miliardi nel sistema delle tecnologie produttive, nei macchinari, nella robotica. Noi siamo partner nei progetti spaziali. Noi siamo partner nei progetti di ricerca e sempre di più lo saremo nel settore della farmaceutica. Il famoso progetto infrastrutturale che riguarda infrastrutture non solo materiali ma di tutto l’apparato economico industriale degli Stati Uniti per noi può costituire un’ulteriore opportunità. Se guardiamo per esempio al reshoring significa che ci sarà, attivato da politiche governative, un ritorno di alcune attività sul territorio americano. C’è un progetto di portare più ricchezza su alcuni territori che sono stati lasciati indietro. Noi siamo la seconda manifattura d’Europa, ma siamo soprattutto il paese delle macchine. Quindi per noi qualsiasi ritorno di attività che era stata trasferita altrove e che viene riportata sul mercato americano ricrea le condizioni di essere fornitore. Di che cosa? Della lavorazione dei metalli, della plastica, della gomma, del packaging. Non c’è macchinario nel quale noi non possiamo giocare il nostro ruolo. Se poi questo si sviluppa ancora di più in termini, per esempio, infrastrutturali, con il miglioramento della portualità, degli aeroporti, soprattutto del trasporto, per esempio pensi a quello ferroviario dove abbiamo un modello di tecnologia efficiente, ancora meglio. Io in un periodo in cui sono stato in Italia posso raccontare di esperienze e di sorprese da parte delle famiglie americane appena partite in treno da Roma, con ragazzini che dicevano “Wow so fast”. Quindi se si sviluppano queste dinamiche noi qui ci giochiamo ancora una volta non solo una crescita nel settore dei beni di consumo ma ritorniamo o cresciamo ancora di più in quei settori che, non dobbiamo dimenticare, caratterizzano il nostro export. Noi esportiamo 57 miliardi di dollari sul mercato americano e buona parte di questi è media e alta tecnologia”.

Traduco: il mercato americano, in queste tempeste di “guerra fredda”, rimane per l’Italia a livello strategico fondamentale.
“Abbiamo notato, nell’attività di servizio della rete degli uffici una crescita notevole di servizi erogati alle imprese italiane. Questo significa che c’è in atto, almeno momentaneamente, una rifocalizzazione del mercato americano agli occhi degli italiani. E questo sia nel settore tecnologico che in quello dei beni di consumo. L’idea è che si va definendo una riconsiderazione del mercato USA per le dinamiche di cui abbiamo parlato. Quindi nuovi territori, nuovi stati, nuovi target e via di seguito con un mercato che, rispetto a quanto avvenuto negli ultimi dieci anni, potrebbe essere attenzionato di più dal nostro sistema produttivo. E noi qui naturalmente ci stiamo attrezzando, e siamo già attrezzati, sia con il presidio territoriale, ma anche con un’attività promozionale. Vorrei anche evidenziare come dal 2020 si è realizzato anche il passaggio della struttura dell’ICE sotto la guida del Ministero degli Affari Esteri e quindi questa sintonia crea ancora una volta le condizioni per essere ancora più efficaci sul mercato”.
Lei è arrivato a New York quando è arrivata la pandemia. Nel suo lavoro qui e nella sua vita cosa le piace di più e cosa di meno di questa città? Come l’ha sorpresa piacevolmente e in cosa l’ha delusa.
“A me piace vedere questa città come un posto in cui c’è ancora un grande potenziale di crescita. Se l’ossessione per la qualità ci caratterizza, allora abbiamo spazi incredibili. Per esempio, nella ristorazione è in atto un trend di crescita della qualità e autenticità, quindi dietro questo obiettivo di fa valere la nostra autenticità c’è la possibilità che sia a New York come in qualsiasi altra città si possa crescere. Quello che caratterizza questo momento è l’esistenza di grandi potenzialità, contrariamente a quello che in certi ambienti economici italiani si pensa, gli USA offrono ancora un grande potenziale di mercato. Per esempio, stiamo portando avanti un progetto delle start up. Ieri abbiamo fatto un pitch di dieci start up che lavorano con ERA, che è l’acceleratore di New York, con una quarantina di potenziali investitori, e abbiamo verificato come anche le start up italiane siano appetitose agli occhi degli investitori americani. E quindi continuamente ho la conferma del fatto che esiste un grande potenziale che caratterizza questa città, pur con tutte le problematiche che ci sono. Sono portato anche a considerare, dopo tanti anni di Asia, ma soprattutto di Cina, che là dove c’è crisi c’è opportunità. Il carattere della lingua cinese che si scrive crisi significa anche opportunità, ha il doppio senso. Dove c’è un ritardo, come per esempio quello attuale di alcuni beni di consumo come calzature e abbigliamento artigianali, là dove ce crisi c’è l’opportunità. Questa città secondo me, ad un osservatore esterno ed attento, da’ questo messaggio”.
Una crisi che porta opportunità?
“Se c’è un ritardo ovviamente c’è un’opportunità”.
Certo. Per esempio, la metro di New York che si deve rifare chissà che saranno treni italiani…
“Tutto il ritardo che si può percepire per noi può essere un’opportunità. Abbiamo il problema di comunicare anche la nostra capacità. Quindi sui treni quanti americani sarebbero disposti a dire che produciamo e usiamo tra i più veloci al mondo e confortevoli e via di seguito. Per fortuna il turismo ci dà una mano”.
Lei quindi si sente al posto giusto al momento giusto.
“New York continua ad essere la quintessenza diciamo dell’America, con tutti i suoi punti forti e deboli ma sta a noi dover lavorare per crescere ancora”.

Finiamo con una cosa che mi ha fatto un po’ pensare sul successo del made in Italy di quest’anno ovunque, anche nello sport. A New York c’è stato un concerto rock, di un gruppo italiano: i Maneskin, che tra l’altro hanno fatto sold out. Gli italiani riescono anche a vincere in questo paese con un prodotto, il rock, inventato dagli americani…
“Devo dire che probabilmente anche qui esiste the italian way, cioè c’è sempre una via italiana per interpretare anche delle cose che possono essere nate altrove. E questo vale anche per il rock. Però non dobbiamo dimenticare che molto rock lo hanno fatto anche gli italoamericani, non siamo mai estranei a questi fenomeni. Nel jazz, per esempio, erano i siciliani che hanno costruito molti dei locali a New Orleans dove è nato il Jazz. Sono d’accordo che è questa capacità nostra di rielaborare anche certi messaggi, saper leggere il mercato e saper offrire poi al mercato questo tipo di soddisfazione, che può essere tecnologica e anche nel settore dei beni di consumo o beni immateriali. Opportunità per noi ma grande lavoro da farsi, perché nessuno ci regala niente. Perché poi ci sono vecchi e nuovi competitor, per esempio nel campo del food che arrivano dal Sud America o dal Mediterraneo. Però diciamo che questo è anche un paese che comincia per via del Covid a guardare in maniera diversa ad alcune cose, a guardare anche all’essenzialità, alla durabilità del prodotto. Noi abbiamo fatto delle indagini di mercato che abbiamo presentato negli ultimi mesi alle nostre imprese italiane e tutte dicono proprio questo: un mercato che darà ancora soddisfazione alla qualità”.
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