Mai come in questo momento, i paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America ai quali si aggiunge la Commissione Europea) appaiono divisi. Si tratta delle nazioni il cui peso “politico, economico, industriale e militare è ritenuto di centrale importanza su scala globale”. Insieme dovrebbero proporre una linea comune. Non è così. La causa è la sonora sconfitta subita per mano di un piccolo gruppo di rivoltosi, dotati di armi e mezzi risalenti a decenni fa. A poco sono serviti i miliardi di dollari spesi dagli alleati per queste “missioni”: secondo fonti attendibili, solo per gli USA, la spesa ammonterebbe a oltre mille miliardi di dollari (in vent’anni), poco meno di venti miliardi per i contribuenti UK, altrettanti per la Germania, 8,7 miliardi di dollari per l’Italia. Somme a 12 zeri e tecnologie tra le più avanzate del pianeta che non sono bastate a sconfiggere qualche migliaio di rivoltosi armati di vecchi Kalashnikov.
Dopo la riunione del 19 agosto dei membri del G7, Dominic Raab, Segretario di Stato del Commonwealth e del Regno Unito, aveva diffuso una nota sintetica imperniata su tre punti. Una “urgente necessità di porre fine alla violenza”, di “garantire il rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle donne, dei bambini e delle minoranze” e di “condurre negoziati inclusivi sul futuro dell’Afghanistan e garantire che tutte le parti rispettino il diritto umanitario internazionale”. L’importanza di creare un “ponte sicuro” per evacuare le persone vulnerabili dall’aeroporto di Kabul. E definire una risposta internazionale che includa un “intenso impegno” sulle questioni fondamentali che l’Afghanistan e la regione devono affrontare.
La situazione di incertezza ha costretto i leader dei paesi del G7 ad incontrarsi di nuovo (in videoconferenza). Un vertice “allargato” al quale hanno partecipato anche il Segretario generale della Nato e il Segretario generale delle Nazioni Unite. Tema del giorno: le operazioni di evacuazione dall’aeroporto di Kabul e della politica a lungo termine sull’Afghanistan per “garantire che qualsiasi nuovo governo sia inclusivo e rispetti gli obblighi internazionali”, come si legge in una nota di Downing Street. Momento delicato per i delegati di sua maestà britannica dopo le polemiche sul modo di accogliere alcuni bambini scappati dall’Afghanistan: ospitati dal Ministero dell’Interno in un hotel, secondo alcune fonti, sarebbero rimasti per molti giorni senza scarpe, vestiti di ricambio o accesso all’assistenza sanitaria. Lo scandalo è scoppiato dopo che un bambino afgano di cinque anni è morto cadendo dalla finestra di un hotel di Sheffield, pochi giorni dopo il suo arrivo nel Regno Unito. Philip Ishola, amministratore delegato dell’organizzazione contro la tratta di bambini Love146, ha affermato che l’approccio del Ministero degli Interni britannico violerebbe le misure di protezione dei bambini, comprese le responsabilità previste dal Children Act. Solo dopo che lo scandalo era finito sui giornali, il Ministro Priti Patel ha promesso che avrebbe fatto “tutto il possibile per fornire supporto” e per garantire che possano “integrarsi e prosperare”.
Al G7 sono emerse difficoltà nel trovare un accordo tra Regno Unito, Francia, Germania, da una parte, e USA, dall’altra. Londra starebbe cercando di convincere gli americani a estendere oltre la data del 31 agosto la scadenza per l’evacuazione da Kabul (e questo nonostante quanto dichiarato da Laurie Bristow, ambasciatore britannico in Afghanistan, per il quale i talebani non tollereranno che le forze occidentali rimangano oltre il mese di agosto e che questa data potrebbe essere una “linea rossa”). Anche la Francia ritiene “necessario” un “rinvio supplementare” del ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan. Di parere diverso gli USA, specie dopo le ultime minacce dei talebani.
Quella che potrebbe sembrare una questione superficiale è in realtà un problema diplomatico alquanto spinoso: trattare con i talebani significherebbe riconoscerli come governo legittimo. Con conseguenze non secondarie, tra le quali permettere loro l’accesso agli aiuti stranieri. Ma questo sarebbe in contrasto con quanto fatto finora: un accordo del 2020 firmato dall’ex presidente Trump, affermava esplicitamente che i talebani “non sono riconosciuti dagli Stati Uniti come stato”. Secondo Annie Pforzheimer, diplomatica statunitense vicecapo missione presso l’ambasciata USA a Kabul dal 2017 al 2018, lo strumento di riconoscimento è “una dei più importanti strumenti rimasti” per trattare con i talebani. Ad esempio, come ha confermato Lord Ahmad, Ministro degli Esteri del Regno Unito, questo riconoscimento permetterebbe di ottenere l’obbligo, da parte dei talebani, di “rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali”.
Sul tema se “i leader del G7 decideranno se e quando riconoscere i talebani” non pare esserci accordo. Il Canada ha dichiarato che continuerà ad attuare il programma di immigrazione per i rifugiati che hanno contribuito agli sforzi in Afghanistan. Ma che non riconoscerà il governo dei talebani.
A Kabul, intanto, si lotta per la sopravvivenza. Le conseguenze geopolitiche della sconfitta degli alleati del G7 sono ancora difficili da definire. Oltre alla necessità di lasciare il paese in pochi giorni, in molti si palesa il timore delle conseguenze che potrebbe avere il flusso dei rifugiati e dei profughi. La Germania (insieme a Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Belgio e Grecia) ha inviato una lettera ai Commissari UE Margaritis Schinas e Ylva Johansson nella quale si sottolinea “l’importanza di rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione”. “Fermare i rimpatri invia un segnale sbagliato ed è probabile che motiverà ancora più cittadini afgani a lasciare casa per dirigersi in Ue”. A giustificazione della richiesta, i Ministri hanno citato gli accordi sanciti tra l’Unione europea e l’Afghanistan il 28 aprile scorso, che prevedrebbero rimpatri “dignitosi e sicuri” dei cittadini afgani che “non soddisfano le condizioni per rimanere nell’Ue”. Per i paesi europei “La dichiarazione non prevede alcuna clausola per fermare o sospendere i ritorni in Afghanistan – qualsiasi tipo di controversia sull’interpretazione degli accordi dovrebbe essere risolta nel gruppo di lavoro congiunto”, si legge nella nota dei Ministri.
Parlando a fianco del presidente del Consiglio europeo Charles Michel e del primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, la Von der Leyen (in Spagna per visitare una struttura che ospita rifugiati afghani che avevano lavorato per l’UE) ha affermato che la Commissione fornirà fondi ai paesi dell’UE che reinsediano i rifugiati afghani. Ma non ha detto dove troverà questi fondi. Già oggi la situazione è grave e sono poche le risorse destinate all’accoglienza. La presidente della Commissione europea ha anche invitato la comunità internazionale a contribuire al reinsediamento dei rifugiati. Ancora una volta parole che sembrano non sapere dei rimpatri in Afghanistan dei rifugiati dai paesi europei. La realtà è che, nonostante i numerosi incontri, l’UE non ha ancora trovato un accordo sull’accoglienza dei migranti e dei rifugiati. E ogni paese fa come crede. In Grecia, ad esempio, il governo ha aumentato la sorveglianza lungo i 40 chilometri di muro che la separano dalla Turchia. A proposito di Turchia, sono circolate voci su un nuovo accordo con l’UE circa la possibilità che la Turchia faccia di nuovo da cuscinetto ospitando rifugiati afghani. Voci che un funzionario turco ha prontamente smentito: “Non c’è accordo tra Turchia e Ue sui rifugiati afghani”.
Quanto a Biden, su di lui pesano come macigni non solo le decisioni prese come presidente, ma anche quanto fatto in Afghanistan come vicepresidente di Obama. Nel 2013, un rapporto americano aveva avvertito la Casa Bianca che i talebani si stavano autofinanziando grazie ai derivati del papavero da oppio (fruttava tra 1,5 e 3 miliardi di dollari all’anno). https://SIGAR-18-52-LL.pdf Ma nessuno aveva preso seri provvedimenti. Per questo motivo, col tempo, il settore è cresciuto esponenzialmente: nel 2020, in Afghanistan, la superfice destinata alla produzione di oppio è passata da 163mila a 224mila ettari. E secondo un recente rapporto UNODC, è la produzione di oppio a “rappresentare la fonte di reddito più significativa per i talebani”. Aver lasciato il campo (anzi “i campi”: quelli di papaveri da oppio) nelle mani dei talebani è forse una delle principali cause strategiche della sconfitta dei paesi del G7 in Afghanistan (è questo commercio che ha permesso ai talebani di autofinanziarsi). Oggi, dopo aver preso il controllo delle frontiere, i talebani controllano non solo la produzione ma anche il commercio: oltre a Zaranj, Spin Baldak (verso il Pakistan), Islam Qala (punto di passaggio verso l’Iran) e Kunduz (verso il nord del Tagikistan). Non aver fatto niente per fermare tutto questo ha, oggi, un peso politico non indifferente.
Dopo la débâcle con la Nato (emersa il 17 agosto scorso durante la conferenza stampa del Segretario generale della Nato), Biden ha cercato di scaricare parte di questo fardello sui paesi del G7. Ma senza successo. All’incontro appena concluso, i paesi membri sono apparsi divisi e incapaci di adottare misure uniche. Distratti, forse, da problemi individuali legate all’accoglienza dei rifugiati (e dei migranti).
Per Biden, si tratta di un momento difficile. Sulle sue spalle il peso di anni e anni di strategie fallimentari (e un costo enorme in termini di soldi e vite umane) che l’uscita frettolosa e male organizzata sta rendendo ancora più penosi. Persino il Pentagono avrebbe chiesto formalmente al presidente Biden di predere una decisione se estendere o meno la scadenza per completare il ritiro (anche per consentire di programmare il ritiro dei 5.800 soldati americani che presidiano l’aeroporto di Kabul, insieme ai loro armamenti e ai loro equipaggiamenti).
Non riuscire a venire a capo di nulla, neanche con i membri del G7, potrebbe essere una macchia indelebile per la sua presidenza. E far tornare a galla problemi interni mai risolti. Una situazione generale che potrebbe avere conseguenze geopolitiche che nè Biden nè gli alleati del G7 sembrano essere in grado di prevedere.