La trionfale Olimpiade azzurra si è conclusa con il decimo posto, come da pronostico. Già così, non è niente male. Sarebbe andata meglio, se il Cio stilasse la classifica contando tutte le medaglie e non solo quelle d’oro. E’ quasi inspiegabile: se arrivi terzo vai sul podio, ma in pratica conti zero. Se facessero testo le quaranta medaglie che l’Italia ha vinto partecipando ai 28 sport ammessi (la media è stratosferica), saremmo settimi, un piazzamento che avrebbe dato maggior lustro alle nostre incredibili vittorie.
Ci dobbiamo accontentare: di essere la nuova superpotenza dell’atletica leggera, quindi i più veloci del mondo. Ci dobbiamo rassegnare: tutta la stampa dei paesi sconfitti, Gran Bretagna in testa, lascia intendere che dietro alle imprese di Tamberi, Jacobs e degli staffettisti ci sia qualcosa di strano. Doping non lo scrivono, ma lo pensano. Ci possiamo ridere sopra: se è vero che nell’anno e mezzo di pandemia i controlli ‘a sorpresa’ non ci sono stati, non è ben chiaro perché a giocare sporco avrebbero dovuto essere soltanto gli italiani. L’idea di approfittarne poteva scattare nella testa di chiunque.
Siamo stati stupefacenti grazie a un principio attivo assolutamente lecito del quale, in passato, non abbiamo fatto largo uso: un senso spiccato della solidarietà. In parole povere, siamo stati una squadra.
Lo hanno raccontato le cronache quotidiane: mai, nel Villaggio azzurro, c’era stata tanta coesione, tanta amicizia, tanto senso della solidarietà. La Pellegrini ha concluso la sua splendida carriera con la quinta finale olimpiaca e, tornata alla base, ha trovato tutti gli azzurri a festeggiarla. Lo stesso rituale è stato adottato per tutti i quaranta atleti saliti sul podio. Ci siamo dati la carica. Meglio: l’abbiamo mantenuta.
Perché, molto probabilmente, c’è un filo azzurro che collega la vittoria dell’Italia all’Europeo di calcio con le impennate dei nostri atleti a Tokyo. E’ saltato il tappo dalla botte dei tabù, dei personalismi, delle invidie e delle gelosie. Il peggio è svaporato, il meglio ha offerto un concentrato di bravura, di abilità, di senso del sacrificio che l’Italia oggi può mostrare al mondo con orgoglio.
Parlammo qui, dopo la storica serata di Wembley, di Rinascimento all’insegna dello sport. La speranza, un mese più tardi, è diventata certezza. C’è un’Italia che ha voglia di risalire la china e di mostrare al mondo il suo meglio. Sono artisti del salto e della corsa, del ciclismo e della ginnastica, del taekwondo e della vela. Sono la nostra gioventù, affatto bruciata. Casomai tenace e professionale. I nostri atleti, come tanti altri, nei giorni di lockdown hanno lavorato nei salotti di casa, sui balconi e nei piccoli spazi condominiali come se fossero in palestra o allo stadio, sotto stretta osservazione.
Se all’appello avessero risposto ‘presente’ anche i ragazzi del nuoto e della scherma, la nostra spedizione sarebbe stata una marcia trionfale, come quella di Alessandra Palmisano (bis di Rio 2016) che ha corso l’ultimo dei 20 chilometri avvolta nel tricolore.
Deve avere giovato alla nostra compattezza e al piacere di stare insieme mostrato dagli azzurri anche la mescolanza delle razze. Erano 46 gli atleti italiani nati altrove, in ogni angolo del mondo, ma cresciuti a casa nostra. Hanno contribuito a cambiare il clima dentro la nostra spedizione, abbattendo muri e ostacoli che inducevano i ‘divi’ delle diverse discipline a guardarsi di traverso.
Non sta a noi dire se lo ‘Ius soli’ sia o meno una legge urgente. Nel dubbio, lo ha fatto Giovanni Malagò, il presidente del Coni: anche grazie all’integrazione dei suoi atleti ha stappato più bottiglie di champagne a Tokyo di quante ne abbia viste bere al famoso circolo romano dei Canottieri, dove si tessono da decenni tele imprenditoriali, oltre che sportive.
Le Olimpiadi le hanno vinte gli Stati Uniti, così come Tortu (novello Mennea) ha battuto l’inglese Blake nell’ultima frazione della 4X100: di un soffio, 39 ori contro 38. Se la ginnasta Simone Biles non fosse stata sull’orlo della crisi di nervi, il fotofinish non sarebbe servito. Ma si sa che rimanere in cima è molto più difficile che arrivarci. Ha 24 anni, è alta 142 centimetri e pesa 47 chili: la metà degli americani non le ha perdonato dubbi e insicurezza. Noi, con tutte le nostre squadre (basket, volley, pallanuoto) uscite ai quarti di finale lo abbiamo fatto subito.
Per una volta, siamo stati campioni anche in questo: nel godere del ‘meglio’ e lasciar perdere il ‘peggio’. Forse è questo uno degli insegnamenti migliori che ci ha lasciato l’Olimpiade. Come minimo, però, ce n’é un altro: la maggior parte dei nostri atleti da podio viene da piccoli centri, un dato che induce ad abbinare il successo alla tranquillità e agli ambienti familiari. Le province di Lombardia e Puglia sfoggiano adesso sette dei nostri dieci ori complessivi. Se fossero state regioni scissioniste, alle Olimpiadi si sarebbero piazzate venticinquesime.
Mettiamo in cornice, prima che in archivio, questa indimenticabile estate di sport. Facciamolo con il tweet di Matteo Berrrettini, primo finalista italiano nella storia di Wimbledon: “Noi non ci rendiamo ancora conto, gli inglesi, invece, hanno capito benissimo”.
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