Il discorso inaugurale di Joe Biden, pronunciato durante il suo insediamento lo scorso 20 Gennaio, ha ricevuto un giudizio tiepido da parte dei commentatori. Pur rappresentando una rottura con gli ultimi, scomodi, quattro anni, ha faticato a fare breccia nei cuori: un compitino ben fatto, ma pur sempre non un capolavoro di oratoria. Eppure, nel fiume di parole che hanno contrassegnato il ritorno americano agli alti ideali fondanti, due di queste già descrivono quella che sarà la politica estera di Joe Biden e del suo Segretario di Stato Tony Blinken: democracy and unity.
La nuova politica estera americana non è veramente “nuova”, così come non lo è il team che la guiderà. Biden e Blinken lavorano insieme ormai da venti anni, da quando il Presidente era chairman del Foreign Relation Committee al Senato. I due sono hanno idee molto simili sul mondo e su come trattare con partner ed avversari ma c’è forse un nodo che li separa. Blinken è un falco che crede che la diplomazia debba servirsi anche della forza, ha appoggiato l’intervento in Libia e in Siria e si sarebbe auspicato un maggiore controllo del Medio Oriente da parte di Trump; Biden è forse meno audace e più disposto all’intervento militare come ultima istanza. Entrambi, però, convergono sul ruolo centrale della diplomazia americana e sul bisogno di coinvolgere maggiormente il Congresso nelle decisioni di politica estera, così da cercare la conciliazione con i Repubblicani.
Anche per questo motivo, la politica estera della nuova amministrazione rappresenterà per certi versi una rottura dai metodi “grossolani” di Donald Trump ed un ritorno ad una narrativa intrisa di alti ideali che ben si intrecci con le politiche interne. La sostanza, però, rimarrà simile.

Lo scorso Aprile, prima delle elezioni, Biden aveva affidato alla rivista Foreign Affairs un lungo articolo (probabilmente scritto a quattro mani con Blinken) dal nome “Why America must lead again”. L’obbiettivo principale, in forte contrasto con il trumpismo, è “rinvigorire la nostra democrazia mentre rafforziamo la coalizione di democrazie che stanno dalla nostra parte nel Mondo”. Per fare questo, chiaramente, Biden elenca una serie di misure atte a salvaguardare la tenuta democratica americana all’interno, come una riforma della giustizia, dell’educazione e un nuovo Voting Right Act. Ma guarda anche all’organizzazione di un Global Summit for Democracy, per promuovere la lotta alla corruzione, agli autoritarismi e una spinta sui diritti umani. Inoltre, nell’articolo, Biden si augura di ritornare a più miti consigli con la NATO, così da creare un nuovo clima di unità, come da ieri auspicato dal suo Segretario Generale Stoltenberg: “Credo nel Nord America e nell’Europa insieme”.
L’audizione al Senato di Tony Blinken dello scorso 19 Gennaio fa da eco all’articolo apparso su Foreign Affairs. Il Segretario di Stato ripete le stesse parole usate da Biden “il Mondo non si organizza da solo”, indicando la necessità di migliorare l’apparato diplomatico attingendo alle menti più brillanti e ai profili più “diverse”, per meglio affrontare le sfide globali. Blinken, di origine ebraiche e cresciuto in Francia, alla Commissione del Senato si è detto favorevole a mantenere l’ambasciata americana a Gerusalemme e volenteroso di riallacciare i rapporti con l’Unione Europea, nonostante osteggi il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2.
È sui dossier più scottanti che l’audizione di Blinken e l’articolo di Biden completano un quadro altrimenti frammentato, seppur sicuramente organico e coerente. La Cina è stata designata come avversaria numero uno e le tensioni continueranno a salire fra i due paesi. Blinken ha concordato con l’amministrazione Trump nel definire “genocidio” le deportazioni degli uiguri, mentre Biden ha suggerito di usare il pugno duro per frenare la concorrenza sleale e le violazioni dei diritti umani. In continuità con il passato, proseguirà l’azione di accerchiamento contro Pechino, che sotto la nuova amministrazione potrebbe coinvolgere anche India ed Indonesia, oltre ai vecchi partner (in primis Australia, Corea del Sud e Giappone). Ma il Presidente si è detto scettico sulla guerra dei dazi e favorevole ad un sistema che renda competitiva la classe media statunitense per meglio difendersi dal commercio cinese.

La diplomazia americana guarderà alla Russia con sospetto. Il Presidente ordinerà ad Avril Haines, a capo dell’intelligence, di lavorare ad un report sulle interferenze nelle elezioni, sul caso Navalny, sui cyberattacchi e sulle taglie ai soldati statunitensi in Afganistan. Questo documento verrà utilizzato per rispondere alle minacce del Cremlino con nuove sanzioni, sebbene Biden voglia salvaguardare la società civile russa in aperto contrasto con Vladimir Putin. Ma la nuova amministrazione dovrà lavorare su due binari, nel tentativo di superare i limiti di Trump e strappare un rinnovo del New START per altri cinque anni. L’accordo per un progressivo disarmo nucleare, raggiunto dall’amministrazione Obama, scadrà il prossimo 5 Febbraio. Il Cremlino, attraverso le parole della portavoce del ministero degli esteri Maria Zakharova, si è detto favorevole ad intavolare un nuovo negoziato.
Trattati sul nucleare saranno priorità dell’amministrazione Biden anche nei confronti di Iran e Corea del Nord. Blinken, fautore della politica estera in Medio Oriente durante i mandati di Obama, ha annunciato che ci sarà collaborazione con il Congresso per far tornare Teheran nel Jcpoa, così da mitigare il potere destabilizzante del paese nell’area. Oltre a questo, Biden si è detto favorevole a sospendere ogni intervento indiretto nella guerra in Yemen. Per quanto riguarda la Corea del Nord, Blinken vorrebbe fare quadrato sia con gli alleati che con la Cina per negoziare con Pyongyang un accordo che prenda spunto dal New START, così da ridurre progressivamente gli armamenti del paese in cambio di un alleggerimento delle sanzioni.
La nuova politica estera americana, dunque, assomiglia molto a quella di Obama ma eredita tutti i grossi limiti di quella trumpiana. Joe Biden e Tony Blinken formano un duo formidabile di menti esperte nel campo della diplomazia e degli affari esteri, sebbene entrambi provengano da quell’establishment democratico che ha contribuito alle instabilità in Siria e Libia. Ma attraverso la preghiera all’unità e alla democrazia, l’amministrazione tenterà di rinsaldare i legami con i partner occidentali, contribuendo ad una propaganda anti-populista e filo-atlantista. Inoltre, facendosi fautrice di una lega democratica, cercherà di colpire tutte quelle nazioni che democratiche non sono e che possono rappresentare minacce di penetrazioni in scenari complicati come il Medio Oriente, l’Africa e l’Est Europa. Insomma, una politica molto pragmatica che unisce l’usato garantito ad un quadro ideologico che potrebbe costituire una nuova dottrina contro gli autoritarismi e le derive antidemocratiche.