Le nocciole sono un ingrediente base della Nutella, la crema spalmabile più famosa al mondo. Sebbene l’Italia sia il secondo paese per quantità di nocciole prodotte, negli ultimi anni la Ferrero ha avviato il “Progetto Nocciola Italia” per aumentarne del 30% la quantità prodotta sul territorio nazionale. L’obiettivo dichiarato? Produrre una Nutella made in Italy. Il vero obiettivo? Diversificare le aree di approvvigionamento ed evitare di dipendere da una sola produzione a rischio geopolitico come quella turca, dove vengono coltivate il 70% delle nocciole globali.
“Che mondo sarebbe senza Nutella?” È un videoreportage girato nella Tuscia, zona del centro Italia che si estende tra la provincia di Orvieto e quella di Viterbo, dove si coltivano un terzo di tutte le nocciole italiane. Se è vero che in questo territorio la coltivazione della nocciola esiste da decenni, è solo negli ultimi anni che si è trasformata in una vera e propria monocoltura intensiva. Il motivo è in parte dovuto al progetto della Ferrero, che garantendo ai coltivatori l’acquisto, per i prossimi quindici anni, del 75% delle nocciole prodotte, ha incentivato la nascita di nuovi impianti di noccioleti nella Tuscia. Il contratto della Ferrero pone però una condizione: il prezzo della nocciola viene stabilito a seconda della percentuale di cimiciato (il danno causato dalla cimice al frutto) che presenta. Questo ha fatto sì che gli agricoltori, al fine di ottenere un prezzo di acquisto più alto, siano invogliati a usare i metodi dell’agricoltura convenzionale per uccidere la cimice, ossia pesticidi, fertilizzanti e diserbanti che hanno un impatto dannoso sull’ambiente e sulla salute delle persone.
Un esempio di resistenza a questo modo di fare agricoltura è portato avanti dal lavoro di Mauro, un agricoltore viterbese che coltiva in modo biologico, sui suoi pochi ettari di terreno, vari tipi di colture, producendo una ‘nocciolata’ che è espressione del sapere e della tradizione della zona. Nello stesso territorio, dunque, si contrappongono due modi opposti di considerare la terra: una visione estrattiva, che la sfrutta come mera fonte di profitto e che non s’interessa dei danni a lungo termine che provoca, come la sterilità dei terreni, e un’altra che vede nella terra qualcosa da curare, per trarne un guadagno in termini di qualità e valorizzazione della comunità.