Michele, detto “Batman”, alza la manica della felpa. Sul braccio tatuato spicca un braccialetto bianco, quello che gli infermieri allacciano al polso dei ricoverati. “Cinque giorni fa sono svenuto e i volontari della Croce Rossa mi hanno portato all’ospedale. Mi hanno fatto il tampone per vedere se avevo il coronavirus, ma sono risultato negativo. Era solo una bronchite acuta”.
Quando il 9 marzo il premier Conte ha firmato il Dpcm “Io resto a casa” per limitare gli spostamenti e ridurre i casi di contagio da Covid-19 in Italia, l’Albergo popolare, il principale dormitorio di Firenze, ha potenziato il suo servizio di accoglienza. “Siamo passati dalla sola fascia notturna ad ospitare tutto il giorno, consentendo a circa duecento senzatetto di stare in un luogo chiuso fino a quando il rischio contagio non sarà diminuito” mi spiega Cristina Vannini, responsabile della cooperativa che gestisce l’Albergo popolare.
Tuttavia, i dormitori, in questo periodo di emergenza, non sono posti completamente sicuri. Anzi. A causa della conformazione stessa di queste strutture come l’avere bagni in comune, stanze multiple, sale comuni, possono diventare terreno fertile per la diffusione del virus, mettendo a rischio la salute degli ospiti e degli operatori che ci lavorano. “Purtroppo alcuni nostri ospiti non se ne stanno chiusi dentro l’Albergo popolare, ma escono ed entrano di continuo. E se negli spazi comuni li obblighiamo a mettere la mascherina, quando passi nelle camere private ti accorgi che pochi la indossano” – continua Cristina.
Al momento, fortunatamente, a Firenze non sono stati segnalati casi di contagio tra i senzatetto, ma la situazione potrebbe cambiare. “All’Albergo popolare, tutte le mattine, alcuni volontari della Croce Rossa fanno controlli della temperatura a campione tra gli ospiti, ma chiaramente non è sufficiente a scongiurare ogni pericolo. Anche noi operatori abbiamo paura, e siamo preoccupati dal rischio di poter contagiare i nostri familiari. Non ci resta che incrociare le dita e sperare” – conclude Cristina.
Nella stazione “Santa Maria Novella”, tra i treni fermi sui binari come millepiedi dormienti e le saracinesche abbassate dei negozi della galleria commerciale, un pianoforte in silenzio sembra la sola presenza che abita la stazione. Sembra, appunto. Perché i senzatetto che non hanno trovato posto in qualche dormitorio, o che preferiscono dormire in strada, si aggirano come spettri tra gli spazi vuoti della stazione, in cerca di qualche moneta, di un angolo dove dormire o scolare una bottiglia di vino senza dover provare vergogna.
Michele, detto “Batman”, è uno di questi. Mi viene incontro con il braccio teso e la mano aperta. Ha i capelli scarruffati e una folta barba, scura come la sua pelle. “Sono partito da Vercelli per fare la Via Francigena. Volevo raggiungere Roma a piedi, come fanno i pellegrini, ma arrivato a Firenze ho rinunciato. Sono cinque anni ormai che vivo in stazione, ma quando la pandemia finirà, il cammino sarà la prima cosa che farò” – dice poggiando la mano sul cuore. “Nei dormitori ci vado malvolentieri perché ci trovi le blatte, e spesso le persone puzzano. E poi io sono per la pace, non mi piacciono le discussioni, e là trovi sempre qualcuno che vuole litigare o che ti frega qualcosa appena chiudi gli occhi”.
Nella città di Dante, “Batman” si cala nel ruolo di “Virgilio”. Mi guida per via traverse fino a uno spiazzo angusto delimitato da pareti scalcinate e da una piccola fessura da cui passa un filo di luce. Un girone infernale occupato da una decina di senzatetto distesi sul pavimento a fumare una sigaretta o a morsicare un tozzo di pane. Quando li chiedo se i volontari passano sulla strada a misurare la temperatura o a fare i tamponi si mettono a ridere della mia ingenuità. Allora li invito a tenere la distanza di almeno un metro e a indossare la mascherina, per la mia e la loro sicurezza. Ma è inutile, visto che la maggior parte di loro la mascherina non ce l’ha, mentre quei pochi che ce l’hanno, non hanno alcuna intenzione di utilizzarla.
Patrizio, detto “il capitano”, si presenta come il capo della banda. “Ho fatto il muratore per vent’anni, poi, quando la ditta è fallita, mi sono messo a fare rapine. In questo periodo, le rapine sono la cosa che più mi manca” – mi dice con sincerità. Poi si alza da terra e si avvicina con il volto a un palmo di distanza dal mio. “Adesso i giornali contano il numero dei morti per coronavirus, ma perché prima non contavano il numero delle milioni di vittime che muoiono ogni giorno di fame nel mondo? Hanno montato questa storia del coronavirus per farci paura e controllarci”- dice con rabbia “il capitano”.
A Firenze, le associazioni che forniscono servizi ai senzatetto, continuano a lavorare anche durante l’emergenza coronavirus. Basti pensare alla Caritas che, sebbene abbia chiuso le mense per evitare assembramenti all’interno di ambienti chiusi, continua a distribuire ogni giorno il kit da asporto con primo, secondo, contorno e acqua a circa 410 persone, o ai volontari della Comunità di Sant’Egidio, che tre volte la settimana escono in strada per portare cibo, mascherine e gel per disinfettare le mani.
I senzatetto ricevono aiuto anche da due giovani musicisti, Luis e Asif, che raccolgono cibo, coperte e vestiti dalle botteghe del quartiere storico di San Frediano. Insieme ad altri ragazzi, hanno dato avvio agli “Angeli del pane”, in memoria degli Angeli del fango, giovani che accorsero a Firenze nel 1966 per aiutare la popolazione colpita dall’alluvione. “Pensiamo che in questo periodo ognuno sia chiamato a fare la sua parte” dice Luis, franco-brasiliano residente a Firenze da due anni. Luis è iscritto come fattorino al servizio di consegne Glovo. Così, in sella alla bicicletta, e con lo zaino giallo sulle spalle, raccoglie e distribuisce il cibo ai senzatetto che incontra per le vie della città, senza dover giustificare alle forze dell’ordine il motivo del suo essere fuori casa.
Nella banda del “capitano” ci sono clochard di lunga data e nuovi arrivati che hanno iniziato a frequentare la stazione anche a causa di dinamiche legate alla pandemia.
Ad esempio, Abdullah, detto “corvo”, ha 22 anni e lavora a Madrid nella panetteria del padre. Da alcune settimane vive in stazione perché è rimasto bloccato a Firenze a causa della cancellazione dei voli aerei per l’emergenza coronavirus. “Il mio Iphone 11 è praticamente nuovo. Te lo vendo a 350 euro. Ho bisogno di soldi per comprare il biglietto per Madrid quando riapriranno gli aeroporti. Altrimenti, proverò a prendere il treno fino a Ventimiglia e proseguire a piedi” – mi dice sfiduciato Abdullah.
Anche Leon, 42 anni, si trova in una situazione di “stand-by”. È uscito dal carcere pochi giorni fa, dopo aver scontato dieci anni per violenze nei confronti della moglie. Vorrebbe tornare a Cuba, la sua terra, ma non ha i documenti in regola per il rimpatrio e in questo momento la macchina burocratica va a rilento. “Non so dove andare, per questo vivo in stazione. Ho chiesto aiuto a degli agenti e mi hanno detto che se commetto un piccolo reato potrò tornare in carcere e starci per qualche mese. Lì avrei un letto, l’acqua calda e la tv, ma non voglio tornare dentro. La libertà è troppo bella” – dice saggiamente Leon.
Tra i senzatetto, le opinioni sul periodo di emergenza che stanno attraversando, sono varie e diverse. Per “Batman” il male maggiore è che, non essendoci più gente in giro, “è difficile racimolare qualche spicciolo per le sigarette”. Giampaolo, invece, pensa ai morti e si augura che Papa Francesco doni le ricchezze del Vaticano per la ricerca del vaccino contro il coronavirus. Willy, originario dello Sri Lanka ed ex badante di anziani, se la prende con il virus perché i carabinieri gli hanno fatto la multa per aver infranto l’obbligo di restare a casa, anche se Willy una casa non ce l’ha da dodici anni. Valentino, infine, mi chiede quanti siano i morti di Covid-19 in Italia. “Non pensavo che la situazione fosse così grave” – mi risponde perplesso quando gli mostro il bollettino della protezione civile.
Comunque sia, per quanto ognuno di loro affronti questo periodo in modo diverso, tutti sono fermamente convinti del fatto che, per quanto il virus sia pericoloso, non potrà accadere loro niente di peggio di ciò che hanno già affrontato nelle proprie vite.
Quando scende la notte, un silenzio assordante avvolge la città di Firenze. Sotto lo sguardo vigile dei militari che, armati di mitra, presiedono l’ingresso della stazione, i senzatetto si accampano in uno spazio riparato, ai piedi della scalinata color avorio che conduce al parcheggio sotterraneo della galleria commerciale. Ognuno ha il suo cantuccio, marcato dall’odore acre del proprio sudore. Dopo aver srotolato il sacco a pelo e pronto ad avvolgersi tra spesse coperte di lana, il capitano mi sussurra ciò che reputo condensi, in poche parole, il modo di vivere della banda che ho incontrato: “Noi il sorriso sulle labbra ce l’abbiamo ancora. È questo l’importante. Perché se si perde il sorriso, si perde tutto nella vita”.