Si è sempre lo straniero di qualcuno, scriveva così, nel 1998, Tahar Ben Jelloun nel saggio (diventato poi un bestseller) Il razzismo spiegato a mia figlia, per raccontare a Merième, che allora aveva dieci anni, che cosa succedeva in Francia (era l’epoca della legge Debré, che prevedeva la schedatura degli immigrati) e così educare alla tolleranza le generazioni a venire.
Mai come oggi quella frase è tanto attuale, dice Gabriella Nobile. Lei lavora come agente di fotografi e registi, ma è anche la fondatrice di Mamme per la pelle, l’associazione no profit che raduna madri adottive, biologiche o affidatarie per tutelarne i figli discriminati per la loro origine. Lei e suo marito Marco molti anni fa hanno adottato Fabien, nato in Congo, e Amelie, nata in Etiopia. Oggi hanno 14 e 9 anni. Gabriella ha scritto questo libro (I miei figli spiegati a un razzista, pubblicato da Feltrinelli) dove racconta come siano frequenti i più banali episodi di razzismo proprio verso i suoi due ragazzi di colore. Ma anche come non manchino talvolta insulti, emarginazioni, gesti scorretti e sospetti, dovuti sempre al colore della pelle. Lei è balzata agli onori della cronaca due anni fa, dopo un post su Facebook in cui scrisse praticamente una lettera aperta a Matteo Salvini (allora ministro degli interni in Italia) in cui raccontava come sua figlia le avesse chiesto più volte: “Se vince lui, ci rimandano in Africa?”.
Gabriella, perché ha scritto questo libro?
“Per raccontare con leggerezza quel che capita anche in Italia. Non è un Paese razzista ma è chiaro che ci sono problemi irrisolti, o forse mai affrontati sul serio. Non è possibile che italiani dalla pelle scura non siano considerati cittadini di questo Paese solo perché, appunto… non sono bianchi”.

Come si può combattere il razzismo?
“L’unica strada è l’empatia, mettersi nei panni dell’altro: provare a immedesimarsi in uno straniero che rischia la vita per salvare i suoi figli, o in un bambino che torna a casa troppo silenzioso, perché il suo amico gli ha detto “con te non gioco più perché sei nero” e lui, magari, ha risposto “scusa””.
Cosa che è successa a sua figlia Amelie?
“Si. La sua amica del cuore le disse una cosa simile, e lei tornò a casa senza dire niente. L’ho scoperto grazie a Fabien, che aveva ascoltato quella conversazione. Ho cercato sua madre e le ho spiegato l’accaduto. Mi ha risposto: “Non so come sia possibile, in casa non diciamo mai queste cose. Certo, quando per strada incontriamo un venditore ambulante diciamo: “Vedi? Ha la pelle dello stesso colore della tua amica Amelie’”. Non ci siamo più frequentati”.

Servono provvedimenti legislativi?
“Sono fondamentali per dare a questi ragazzi un senso di appartenenza che gli è negato. Il paradosso è che mio figlio, che non è nato in Italia, è italiano. Il figlio di un egiziano qui da vent’anni è nato a Milano ma non ha la cittadinanza. Questo è sbagliato. Liliana Segre, che ha scritto la prefazione del libro, aveva cercato di avviare una commissione parlamentare sul razzismo, ma è finita sotto scorta.
Non ci conoscevamo, ma quando le ho scritto un’email per chiederle se voleva introdurre il libro, ha accettato. Le è piaciuta in particolare la parte in cui parlo proprio dell’empatia, che è la sola cosa che ci rende umani e ci fa smettere di essere solo oggetti. Stücke, dicevano i nazisti, cioè “pezzi””.