18 maggio h. 07:00 a.m. EST
Con un occhio all’inesorabile avanzata della pandemia nell’arco di un solo mese (la tabella di ieri sera dà più del doppio di casi confermati e di decessi rispetto ai 2.223.230 confermati e ai 152.328 decessi del 17 aprile), viene da pensare alle parole di Galileo Galilei sul rapporto tra specie umana e natura, trasmesse con lettera del 30 giugno 1612 a Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei:
“Noi non doviamo desiderare che la Natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi, ma conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a quello che ella ha fatto, sicuri che tale essere l’ottimo e non altro”.
L’unica parola in maiuscolo è natura, tanto per rendere chiara da subito la gerarchia tra i soggetti coinvolti nell’affermazione di Galilei. Si dà il caso che il virus Corona che sta prostrando la tipologia di vita associata che abbiamo messo in piedi dal dopoguerra, sia stato generato da un rapporto sbagliato tra la nostra specie e la natura (non siamo nuovi ai corona, e siamo recidivi in materia di volatili; né è il caso di dimenticare, per stare ad episodi recenti, cosa accadde in Gran Bretagna ed Europa con il morbo Bse detto “mucca pazza”). Si dà anche il caso che gli scienziati abbiano informato che gli abitanti delle zone a più alto inquinamento ambientale sono maggiormente a rischio di infezione da virus Corona 19, sottolineando che la progressione del riscaldamento globale, alterando alcune condizioni legate all’approvvigionamento dell’acqua e alla produzione agricola comporterà ulteriori stress per la salute globale. Galilei dice che “conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a quello che ella” Natura “ha fatto”. Non si sente un governante in giro per il mondo che sia pronto ad adeguarsi. Molto male.
Il vegliardo Avram Noam Chomsky, 92 anni di lucida inascoltata coerenza, avverte, grazie alla pubblicazione nel Literary Hub del 22 aprile della sua prefazione al libro di Stan Cox The Green New Deal and Beyond, che i governi devono varare subito il “Green New Deal” se vogliono evitare al mondo una “disgrazia” irreparabile. Si tratta, per il grande linguista, di capire che l’attuale crisi globale ambientale e climatica, nella quale e non fuori dalla quale va considerato quanto Covid-19 sta distruggendo in termini di vite lavoro e socialità, minaccia di frantumare la vita umana organizzata in ogni sua riconoscibile forma. Così intesa, è una minaccia unica nella storia della specie umana, in quanto “a true existential crisis”. Chomsky, per trovare un momento altrettanto drammatico nella vicenda del pianeta, va indietro nel tempo sino a 65 milioni di anni fa quando il grande asteroide venuto dallo spazio colpì la Terra mettendo termine all’età dei dinosauri. Con la franchezza del linguaggio che gli è propria già dagli anni delle marce per i diritti civili e contro la guerra vietnamita, lo studioso definisce criminale la posizione statunitense rispetto al riscaldamento climatico:
“But it is impossibile to overlook the fact that the most powerful state in human history is under the leadership of what can only be accurately described as a gang of criminals who are dedicated to racing to the cliff with abandon.”
Nel saggio l’autore fa riferimento alle proposte per il nuovo New Deal dell’economista Robert Pollin dell’università del Massachusetts, Amherst, in materia di occupazione e attività economiche, richiamando analisi di storici dell’economia, come Erik Loomis e David Montgomery sulle differenze della struttura sociale e politica attuale rispetto a quella che, un secolo fa, si trovò a gestire il grande presidente democratico Franklin D. Roosevelt.
D’altronde, come altrimenti potrebbero, senza un New Deal universale, le nostre società far fronte alla montante miseria portata dal Covid-19 e dai suoi effetti? L’accenno a due casi aiuterà nella comprensione di quale mondo ci aspetti dietro l’angolo.
La Russia, paese di 147 milioni di anime, non casualmente inserita da questa settimana nella tabella della rubrica, illustra, nel confronto tra il dato di lunedì 11 maggio e di ieri, un incremento di casi confermati che nella settimana ha viaggiato alla media di 10.000 al giorno, portando la democratura di Mosca a collocarsi al secondo posto, dietro gli Stati Uniti, nella triste classifica dei paesi più infetti da Covid-19 al mondo.
Né inganni il risibile numero dei decessi, rispetto all’elevato numero dei casi confermati. Si è avuto modo di avvertire come nei paesi possa essere diverso il metodo di computazione dei decessi. Sotto il profilo statistico, le autorità sanitarie russe, che lesinano in fatto di tamponi, computano come decessi da deficit cardiaci o polmonari, quelli che in altri sistemi di rilevazione sono ascritti al Covid-19. In compenso, le cronache dei giornali russi riportano vicende di ospedali colmi di infetti, ambulanze che attendono sino a nove ore prime di consegnare pazienti alle corsie, l’arruolamento di studenti di medicina per contrastare l’aumento esponenziale di malati. Si tratta di cronache riguardanti Mosca e poche altre grandi città Chi conosce il paese, sa quale sia la condizione sanitaria della Russia profonda e quale il livello di informazione disponibile. La limatura continua fatta al sistema sanitario rispetto all’epoca sovietica, per dirottare dalla spesa sociale gli investimenti del nuovo stato, ha ridotto in modo significativo ospedali e medici. Le notizie sull’esplosione di respiratori nei reparti ospedalieri è un segnale che illumina a che punto possa essere la manutenzione del sistema sanitario.
In questo quadro va letta la prospettiva di povertà del paese. L’ex grande potenza, finita, dopo la rimozione di Eltsin, nelle mani di un manipolo di nazionalisti ed oligarchi che hanno provveduto a spartirsi e condividere ricchezze e potere, invece di investire nel progresso della nazione e della sua sterminata massa di povera gente, ha optato per azioni di aggressione in stile zarista verso Crimea e Ucraina orientale, di intimidazione in stile sovietico verso i paesi baltici e altri vicini, di comportamenti imperialistici nell’oriente medio in particolare in Siria. I costi collegati e successivamente gli effetti delle sanzioni internazionali che sono seguite, hanno allontanato ulteriormente le riforme strutturali indispensabili a rendere il paese più giusto e con meno povertà. Il quadro ha portato allo scarseggiare di molti beni di prima necessità e conseguentemente all’aumento generalizzato dei prezzi, il che, in un periodo di bassa crescita, ha sospinto larghe sacche di popolazione sul limite della povertà. Già prima dell’epidemia da Corona, il 13,5% della gente russa era sotto la soglia di sussistenza di €150 mensili, al cospetto di fondi statali che, grazie agli allora alti prezzi di gas e petrolio, continuavano ad ingrassare. La concomitanza di caduta dei prezzi delle materie prime e di innalzamento della disoccupazione per gli effetti di Covid-19, consiglierebbe allo stato di rivolgersi a politiche sociali di mitigazione della povertà. La tradizione di governo russa non dà molte speranze in questa direzione. Si aggiunga l’estremo ritardo nel far fronte alla crisi mostrato dalla Federazione, e, come in tanti altri paesi, la confusione tra le competenze centrali e periferiche, che sicuramente si rinnoveranno quando sarà il momento di attuare le necessarie politiche di welfare.
Al momento le imprese con attività considerate non indispensabili, hanno spedito a casa i dipendenti garantendo salario pieno, che facciano o meno telelavoro. Un comportamento che può essere attuato solo dalle grandi imprese; in assenza di aiuto pubblico, le piccole e medie imprese chiudono, e si ritiene che così stia facendo almeno il 70% di esse, a meno che prestiti e fondi promessi da Putin non si spiccino ad arrivare. In alternati altri 5 milioni di disoccupati in strada, in un paese che normalmente spende in supporto all’economia solo il 2,8% del suo prodotto annuo, con un atteggiamento di frugalità pubblica non riscontrabile in nessun altro paese europeo. Veb, la banca d’investimento statale, ha previsto qualche settimana fa che il reddito dei russi quest’anno scenderà del 17,5%: in un paese dove più del 60% della popolazione già prima di Covid-19 non riusciva ad accumulare risparmio, dove le pensioni sono miserande e manca la tradizione di volontariato e assistenzialismo spontaneo, è facile intravedere le conseguenze. Non si sottovaluti il fatto che la crisi rimbalzerà anche in molti paesi vicini, specie caucasici, da dove arrivava mano d’opera, spesso illegale e coperta, per le occupazioni meno redditizie.
Le Filippine rappresentano un altro caso esemplare, per almeno quattro ragioni: sono un paese internazionalmente sensibile per via della minaccia islamista nel sud est asiatico, hanno un regime politico tendenzialmente autoritario, alimentano la propria crescita con forte contributo di rimesse dall’estero, si trovano in una regione che ha subito sinora un basso livello di contagio. Tutti e tre gli elementi verranno influenzati dalle conseguenze della pandemia, in particolare, per quanto qui interessa: l’economia e il sociale. Alla fine della prima settimana di maggio, il numero riconosciuto dei positivi era a quota prossima a 9.000. Stamattina è dato vicino alle 13.000 unità, con l’incremento di quasi il 50% in due settimane. Il rilassamento delle misure di distanziamento sociale e di chiusura delle attività sta facendo ripartire l’economia. Durano invece le misure di compressione delle libertà personali affidate all’autoritario Duterte, tra le quali spicca il rischio in cui incorre chi diffonde notizie inappropriate sull’epidemia, e il mano libera a polizia e altre forze d’ordine per reprimere chi violasse le misure di restrizione sociale ed economica. In quanto ai pagamenti diretti di aiuto a 18 milioni di famiglie bisognose, per quanto se ne sa ne sono arrivati a destinazione poco più di ¼. Al tempo stesso, il ministero del Lavoro ha sospeso il pagamento degli aiuti promessi ai lavoratori per mancanza di fondi. Facile prevedere che un buon numero di disoccupati si stia andando ad aggiungere alla massa sterminata di lavoratori grigi e neri, facendo lievitare la massa di filippini che vive di carità, sostegno famigliare, pasti distribuiti dalle Ong e dalle chiese. Assolutamente da evitare la recessione, che bloccherebbe lo sviluppo, tanto più che molti filippini impiegati all’estero nei lavori domestici, dovranno necessariamente rientrare in patria..
Il ragionamento sul rapporto tra Covid-19 e nuove povertà risulta evidenziato anche da come casi confermati e decessi si siano sinora distribuiti all’interno delle classi sociali nei paesi più ricchi. A questo proposito cominciano a circolare alcuni dati, e la lista delle concause che ne spiegano l’ingiustizia. Tra queste il fatto che i poveri, non avendo soldi a sufficienza, non possono curarsi come i ricchi né possono seguire un regime di vita altrettanto salutistico; di conseguenza accumulano malanni, vivono in abitazioni più piccole malsane e promiscue, fanno lavori a rischio come il trattamento delle carni o la cura di anziani e malati. Si aggiunga che, in epoca di Covid-19 hanno avuto meno opportunità di telelavoro, e per mancanza di strumenti, e per il tipo di lavoro materiale che in genere espletano.

Nel Bronx il tasso di contagio rispetto alla popolazione risulta doppio che a Manhattan, e anche il tasso di mortalità registra lo stesso andamento. Si è qui già ragionato su come il male si sia abbattuto in modo più rilevante sulla comunità americana nera, ma vale la pena aggiornare qualche dato, visto che i neri sono spesso anche i più poveri tra gli statunitensi. Gli afroamericani, con il 13% della popolazione, hanno il 27% dei deceduti con virus Corona-19, più del doppio. In Kansas e Wisconsin la probabilità che un nero muoia del virus risulta sette volte superiore a quella di un bianco, e sei volte superiore a Washington, D.C.
Nel Regno Unito, le zone povere registrano il doppio di mortalità rispetto a quelle ricche e studi di Lancet Infectious Deseases testimoniano che la popolazione delle zone meno favorite ha fino al quadruplo di probabilità di malattia e decesso rispetto a quella delle zone più ricche. Lo studio ha guardato in particolare ad Inghilterra e Galles.
Anche in Spagna i poveri rischiano quattro volte più dei ricchi. Lo dice il confronto fatto a Barcellona tra Sarrià e Pedralbes da una parte (ricche) e Les Roquetes e la Guineuta (povere), e a Madrid dove alta mortalità e infettività è stata riscontrata nei quartieri operai di Moratalaz, Tetuán e Puente de Vallecas. Altre località, in particolare nei Paesi Baschi dove i dati sono molto avanzati, confermano l’orientamento. A Singapore, per dire, gli studi danno risultati tendenzialmente analoghi. E lo stesso notano i dati cileni, come afferma il quotidiano madrileno El País, che alla questione sta dedicando da settimane specifica attenzione.
Qualche macroraffronto fra aree, ora, partendo dalle tabelle di seguito rese disponibili per i giorni di giovedì 14 e sabato 16.
Avendo chiara l’evoluzione nei paesi chiave della tabella, in base alla ripartizione delle regioni proposta dall’Organizzazione mondiale della Sanità, Oms, si hanno i seguenti casi confermati per macroaree.
I casi confermati di ieri, raggruppati per regioni, da parte dell’Oms, risultano come segue.
A parte il Mediterraneo orientale (+1.714) e l’Africa (+301) tutte le aree ieri 17 maggio manifestavano un regresso di nuovi contagi rispetto al giorno precedente: Americhe -5.914, Europa -50, Pacifico occidentale -18, Sud Est Asiatico -20. Se confermata in settimana, la notizia è evidentemente di buon auspicio.
Tra i grandi paesi più colpiti, solo Brasile, India e Perù risultano in crescita, i primi due dal giorno 12 maggio, il Perù dal 13. Data la sua rilevanza, il Brasile viene incluso nella tabella statistica a partire da oggi.
Russia e Iran hanno dati contradditori, nel senso che l’uscita dall’epidemia non risulta ancora decisa.
Tra le varie evidenze, i dati Ons dicono come il Covid-19, transitato negli scorsi mesi da est verso l’occidente atlantico, stia ora instradandosi nel percorso nord-sud. Se la tendenza trovasse conferma e dirompesse, ci troveremmo davanti a una vera tragedia epocale, vista la situazione sanitaria e ospedaliera del meridione del mondo.
Per concludere, la tabella riassuntiva dei dati riferiti agli Stati Uniti, in parziale miglioramento.
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