Come al solito il dibattito seguito alla liberazione di Silvia Romano si sta trasformando in un derby tra odiatori e buonisti, dove c’è spazio anche per i pettegoli. L’Italia è un paese pettegolo dove si corre spesso il rischio di perdere di vista l’essenza centrale del problema, discutendo di dettagli irrilevanti invece che della soluzione al problema.
In questo caso, una volta rallegratici per il ritorno a casa di Silvia, si dovrebbe fare un salto di qualità e discutere in modo serio della sicurezza di chi lavora in zone a rischio, di quali protocolli e regole dovrebbero essere concordati, adottati e sottoscritti dalle ONG insieme allo Stato italiano. Sembra incredibile, ma non esiste nulla che imponga al variegato mondo del volontariato regole comuni sulla formazione delle persone da inviare in zone pericolose. Esistono consigli e suggerimenti che risalgono al 2015 quando ONG e Unità di crisi fecero una serie di incontri sul tema sicurezza alla Farnesina. Li trovate allegati a questo articolo, dato che nel sito del Ministero degli Esteri non sono evidenziati. (ONG E SICUREZZA DEL PERSONALE 9.9.15 DEF; PRINCIPI_COLLABORAZIONE_ONG-UdC 9.9.15; ONG e UdC. DOSSIER ‘Consigli sicurezza’ 9.9.15 DEF)
Diversa cosa è invece il più strutturato mondo delle organizzazioni internazionali, tipo ONU, che ha un consolidato sistema di sicurezza. La sensazione è che sarebbe necessario andare oltre e fissare qualcosa di più concreto, tipo un maggior controllo dello Stato italiano in base a criteri precisi da concordare insieme alle ONG e alle onlus, ferma restando la loro autonomia. I finanziamenti pubblici dei progetti all’estero per esempio dovrebbero essere erogati solo quando vengano rispettati i criteri di sicurezza nella gestione del personale; i bilanci e gli statuti dovrebbero essere controllati con scrupolo e la voce sicurezza dovrebbe essere condizione indispensabile per l’ erogazione del 5 x mille. Non si va ad operare all’estero se non si è in grado di garantire la protezione dei propri operatori. Se si è una piccola onlus si può fare del bene anche lavorando nel proprio paese e appoggiandosi a chi all’estero è in grado di operare in sicurezza, condizione che, in alcuni casi, significa utilizzare personale locale e non italiano. E’ quanto fanno già le ong più grosse. E’ un tema che deve riguardare lo Stato italiano e questo coinvolgimento non significa diminuire la libertà di chi vuole fare del bene. Anzi, vuol dire portare solidarietà dove ce n’è bisogno, ma in modo consapevole.

Al momento ogni ong e onlus si muove come vuole, in base alle proprie risorse, competenze e senso di responsabilità. Chi è grande e strutturato può permettersi una formazione adeguata, chi è piccolo non si pone neppure il problema, come abbiamo visto nel caso di Africa Milele, che ha consentito ad una ragazza bianca ventenne di restare da sola in un villaggio africano in una zona infestata da terroristi islamici che in passato avevano già agito in modo brutale nella capitale Nairobi e lungo la costa contro i turisti a Malindi. Una follia, una leggerezza che non dovrebbe essere consentita. Che tipo di preparazione era stata fatta a Silvia? Che tipo di conoscenza c’era sulla gestione dei rischi in quelle zone instabili? Il Kenya è un paese pericoloso, anche se tanti italiani hanno ancora le loro case di vacanza sulla costa dell’Oceano Indiano e molte coppie per anni, come i fondatori di Africa Milele, lo hanno scelto come destinazione dei loro viaggi di nozze. Bisogna fare molta attenzione, perché l’Africa sta diventando terreno di conquista dei movimenti terroristici e la vicinanza del Kenya con la Somalia non aiuta la stabilità del paese.
La voglia di fare del bene non può essere la spinta ad agire armati solo dell’entusiasmo e dell’incompetenza. Servono addestramento e mezzi per garantire un sistema di sicurezza nell’area in cui si opera. Il rischio di finire comunque nelle mani di bande criminali e di terroristi è sempre in agguato, ma senza alcuna formazione sulla gestione del pericolo diventa una certezza.
Come ricorda Nino Sergi, presidente emerito di Intersos, Ong da anni impegnata sul fronte delle emergenze in paesi in guerra o colpiti da disastri naturali e che in passato ha gestito tre sequestri del proprio personale, “è necessario scoraggiare iniziative basate unicamente sulla solidarietà del cuore, senza tenere adeguatamente conto delle difficoltà che la sola generosità può creare per sé e per altri se non è inserita in un contesto regolato e vissuta con l’indispensabile professionalità. Occorre trovare equilibrio tra la spinta solidaristica e la valutazione del rischio per gli operatori italiani, locali e internazionali”.
Sergi preme per riprendere gli incontri con la Farnesina sul tema della sicurezza, in un mondo che è diventato sempre più pericoloso. Non è sufficiente avere il sito Viaggiare informati con l’elenco dei paesi più turbolenti. Forse è arrivato il momento di pensare a come finanziare una formazione vera per coloro che credono nel valore della solidarietà ma desiderano operare all’estero facendo un salto di qualità, con un sistema meno improvvisato. Forse serve un maggiore coinvolgimento delle stesse ambasciate con il personale delle ong che opera in aree a rischio. Come è stato possibile che Silvia, una ragazza senza esperienza nella gestione dei rischi, sia arrivata in Kenya per lavorare con i bambini di Chakama e nessuno l’abbia fermata prima? Africa Milele probabilmente non aveva alcuna persona al suo interno in grado di capire che la sicurezza nel paese si era deteriorata e non era più quel paradiso che i due fondatori della onlus avevano scoperto qualche anno prima.
Sopra nel video, le parole di Silvia Romano al suo arrivo a Roma.
Abbiamo la fortuna di vivere in Italia, dove ognuno può scegliere liberamente che cosa fare nella vita e quali sogni seguire, ma se si vuole lavorare nel mondo della solidarietà e del volontariato all’estero vanno stabilite le condizioni per l’operatività di ong e onlus, e quale sia il loro raggio di azione, in base alle loro capacità organizzative. Se non si possono garantire certi standard, si opera vicino a casa e non si manda personale all’estero.
Chi fa solidarietà deve dimostrare di esserne all’altezza, di averne i requisiti. Si faccia in modo che la competenza e la preparazione siano la regola valida per tutti. Silvia è tornata, le auguriamo di riprendersi presto fisicamente e psicologicamente, ma riapriamo subito in modo concreto il confronto sul tema sicurezza tra le Ong e il Ministero degli Esteri.