The Scarlet Zone. La prudenza della Fase 2 non è un attentato alla libertà di culto
3 maggio 2020, ore 16:30
Comincio la mie giornata alle 7 con la Messa di papa Francesco. Le sue brevi, sagge riflessioni lasciano una traccia che ripercorro durante il giorno, ma sinceramente preferirei prendere la mia bici e andarmi a sedere in un banco in fondo a una delle nostre chiese per essere davvero presente, corpo e anima, a una Messa celebrata dal mio Arciprete.

Speravo che a partire dal 4 maggio, con l’inizio della “Fase 2” avremmo potuto tornare, seppur con qualche cautela, a celebrare insieme i sacramenti e mi ha quindi profondamente rattristato sentire che il Governo ha deciso di estendere la proibizione di celebrare funzioni religiose con la partecipazione dei fedeli. Ma sono sicuro che non è stata una decisione presa a cuor leggero e che è stata dettata dalla volontà di contenere il contagio e, quindi, di salvare vite.
Subito dopo la conferenza stampa durante la quale il premier Conte aveva annunciato le misure adottate per la “Fase 2” e aveva ringraziato i vescovi per la collaborazione prestata durante la crisi Covid19, la segreteria generale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha diramato un comunicato duro, scomposto e vagamente ricattatorio reagendo in maniera stizzita e arrogante alle sofferte decisioni dell’esecutivo. Tra le altre cose il testo parla di una compromissione dell’”esercizio della libertà di culto”, mette in dubbio che sia lo stato a poter prendere decisioni di questo tipo, e conclude con parole quasi minacciose che sembrano far dipendere la continuazione delle l’attività di assistenza ai più bisognosi alla riammissione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche.

Dire che in Italia la libertà di culto è in pericolo è un insulto nei confronti dei cristiani che in tante parti del mondo vengono veramente torturati, uccisi e perseguitati se partecipano alla Messa. I riti religiosi cattolici, come quelli delle altre confessioni, e come tutti gli eventi culturali e artistici che comportano la presenza di molte persone in un luogo chiuso sono ugualmente sospesi per il momento. Non c’è alcun intento persecutorio nelle misure del Governo e il Papa l’ha implicitamente riconosciuto correggendo tono e contenuto del maldestro comunicato dei vescovi italiani, di cui è Primate, invitando i fedeli la mattina successiva alla pazienza e al rispetto delle regole per limitare il contagio da Covid.
Il catechismo di Pio X definiva i sacramenti “segni tangibili” della Grazia, e tangibili vuol dire per l’appunto che si possono toccare, gustare, annusare. Si entra in chiesa e ci si segna con l’acqua lustrale, ci si accosta alla Comunione in mano o in bocca, dalle mani del sacerdote che ha consacrato il pane e il vino quasi alitando il canone su di essi. Momenti importanti che, durante una pandemia, costituiscono un rischio oggettivo. I vescovi potranno proporre modifiche temporanee alle prassi liturgiche, ma l’ultima parola sulla potenziale contagiosità di eventi pubblici (come le Messe) deve essere giudicata da scienziati e tecnici e sanzionata dallo Stato.

Un tempo si rimproverava ai preti italiani di conoscere meglio I Promessi Sposi della Bibbia e qualcuno potrebbe rimproverare a me di essere ossessionato dal Romanzo. Rincresce, invece notare come oggi i vescovi italici abbiano completamente dimenticato il capolavoro del cattolicissimo Alessandro Manzoni. Idealmente vorrei mandarne una copia a ciascuno di loro con un post-it al capitolo 32. Si parla della peste e delle misure prese dal governo milanese per bloccare il contagio. Racconta don Lisander che i decurioni chiesero ripetutamente al cardinale Federigo di tenere una solenne processione col corpo di s. Carlo Borromeo. Un po’ come Salvini che voleva spedire tutti in Chiesa per Pasqua a chiedere la protezione della Madonna. Il buon Federigo per un po’ rifiutò ritenendo che “il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio”, ma poi fu costretto a cedere alle pressioni e autorizzò la processione che causò un’impennata senza precedenti di nuovi contagiati e di morti.
I vescovi farebbero bene ad ascoltare la lezione del Manzoni e della storia perché i cattolici italiani possono sopportare ancora per un po’ di tempo il digiuno eucaristico, ma non sono tenuti ad allinearsi alle posizioni miopi e retrograde della CEI.
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Coronavirus tra reti sociali e media: bufale, storia e leggenda
18 aprile 2020, ore 20:15
Una delle imprese più difficili ai tempi del Coronavirus, più difficile di trovare la farina e il lievito di birra al supermercato, più difficile di imparare le differenze fra le diverse mascherine è distinguere fra notizie veritiere e bufale. E intanto che ci siamo precisiamo che il termine bufala traduce egregiamente l’espressione ‘fake news’. È un termine che risale a Roma antica, quando i macellai vendevano diversi tipi di carne: vacca, capra, maiale, e per l’appunto bufala, ritenuta la peggiore di tutte. Quando il malcapitato cliente si accorgeva della truffa, normalmente tornava al mercato e rimproverava il beccaio urlandogli di avergli per l’appunto, “dato una bufala”.
Di questi tempi le bufale pascolano beate tra le bacheche delle nostre reti sociali, affollate più che mai, e a volte riescono ad affacciarsi anche tra le colonne dei nostri giornali e dagli schermi dei nostri notiziari televisivi. Vi suggerisco quindi, come passatempo intelligente, di dedicarvi alla caccia alla bufala. Quella giornalistica, evidentemente, visto che le altre, come vi ho detto hanno carne pessima al gusto ma, com’è risaputo, producono il latte pregiato con cui si fa la mozzarella più gustosa. Potete anche organizzare partite di caccia alla bufala coi vostri amici per vedere chi ne sgama di più
Attenzione però, non tutte le bufale sono facilmente riconoscibili a prima vista e possono anche confondersi con pacifiche pecore al pascolo, soprattutto quando le vedete apparire in tutti i media, anche quelli più rispettati. Un esempio triste e macabro di questi giorni mi aiuterà a spiegare che la caccia alla bufala ai tempi del coronavirus può richiedere più acume ed arguzia di un cruciverba senza schema. I giornali e telegiornali italiani qualche giorno fa hanno sparato a tutta pagina titoli molto simili che dicevano con minime varianti “Coronavirus: fosse comuni a New York”. Gli articoli corredavano le immagini agghiaccianti di uomini in tuta bianca intenti a seppellire casse di pino caricate da un muletto e sistemate una accanto all’altra. Ora, il video è autentico, ma la storia che c’è dietro è diversa rispetto a quella raccontata dai titoli dei nostri giornali.
L’isoletta sulla quale si svolgono queste pietose operazioni si chiamava anticamente Heart Island perché ricorda vagamente la forma di un cuore, poi perse la ‘e’ del nome e con quello anche l’aura romantica che poteva evocare per diventare una specie di scenario ideale per un romanzo gotico o un film dell’orrore. Fu infatti usata come riformatorio, sanatorio, campo di prigionia militare, base missilistica, rifugio per senza tetto e allo stesso tempo come ‘campo del vasaio’. Sì avete capito bene, proprio come quello di biblica memoria comprato coi 30 denari del tradimento di Cristo, gettati da Giuda nel tempio prima di impiccarsi. La sepoltura dei resti dei morti non riconosciuti da nessuno o troppo poveri per pagarsi funerale e sepoltura era affidata, fino all’anno scorso, ai detenuti della vicina Rikers Island. Pare che siano sepolte qui più di un milione di corpi, anche se recentemente solo un migliaio di persone all’anno ha trovato qui l’ultima dimora.
L’unica piccola, triste, novità indotta dalla pandemia è stata la decisione del Sindaco De Blasio di dimezzare i tempi di attesa per il riconoscimento dei morti negli obitori prima di procedere alla sepoltura a Hart Island. La storia vera dietro il video che ha fatto il giro del mondo è quindi sostanzialmente diversa da quella che appariva dietro i titoli dei giornali: ad Hart Island si seppelliscono da decenni le persone non riconosciute da nessuno e si è continuato a farlo in questi giorni. È possibile ipotizzare che tra i defunti allineati in quella lunga fossa, ci fosse anche qualche vittima del Covid19, ma la malattia che ne ha causato il decesso non è senz’altro la ragione per cui sono stati sepolti lì.

Ad onor del vero, la maggior parte dei corrispondenti da New York ha raccontato le cose che ho appena detto, ma i titoli scelti dalle loro testate raccontavano, invece, una storia sostanzialmente diversa. Un mio amico operatore video e producer mi ha confidato che il redattore di un importante programma di attualità televisiva gli ha detto perentorio che da New York in questi giorni vogliono solo “sangue e morti”. Le altre storie non interessano. È chiaro dunque che non ci troviamo davanti a una semplice discrepanza fra articolo e titolo, che semplifica e riduce sempre la notizia a poche parole, ma a un scelta precisa di conformare le notizie a una narrazione pre-confezionata.
Leggendo quei titoli mi è venuta in mente la frase finale del film western di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance. Il direttore del giornale che viene a scoprire la verità su un assassinio decide di non stamparla e spiega così la sua decisione: “Questo è il West. Quando la leggenda diventa fatto, pubblica la leggenda!”.
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The Scarlet Zone: il Coronavirus mi ha fatto tornare maestro fra Parma e Madrid

In Spagna si avvicina la Settimana Santa, ma “Cristo, igual que todos, está en su casa encerrado, y no lo dejan salir”
5 aprile, 2020, ore 20:15
Ho un appuntamento quotidiano che mi riempie di vita e di allegria in queste giornate tutte uguali di clausura in una casa diventata fortino assediato, nel quale si cerca di difendersi da un nemico forse indebolito, ma non vinto. Per un’ora torno a fare il mio lavoro preferito nel mio paese preferito. Ho studiato per fare il maestro e per un po’ l’ho anche fatto, come supplente e insegnante di religione qui a Bozzolo e nelle piccole scuole dei dintorni. Maestro come la mia mamma, la mia nonna, mia zia e mio padre che ,anche se insegnava alle superiori, di cuore e di spirito era un maestro d’asilo, come gli diceva sua mamma. Maestro come i miei compagni di scuola e come tanti amici e amiche. E torno a fare il maestro, senza spostarmi da Bozzolo, proiettandomi in Spagna, la mia Spagna martoriata, il mio paese d’elezione per i vincoli d’amore, affetto e amicizia che mi legano a quella terra e per l’attaccamento misterioso e viscerale che provo per quella lingua e quella cultura che sento tanto mie. Alle 11 smetto di lavorare e di scrivere e attacco il computer per collegarmi alla mia pluriclasse virtuale, come fanno tanti colleghi ogni giorno in ogni parte del mondo, reinventandosi di sana pianta il loro lavoro, imparando quotidianamente qualche nuova diavoleria elettronica e virtuale che permetta loro di tenere desta l’attenzione dei ragazzi.
La mia amica Chiara Muchetti, che insegna matematica e scienze alle scuole medie, ha condiviso con me il piano standard delle sue video-lezioni. A me sembra così bello e completo che mi permetto di consigliare a tutti i colleghi di adottarlo: “ A) bollettino nonni: come stanno, cosa fanno, come li possiamo aiutare. B) lotta alle bufale o fake news: devono raccontarmi le cose più assurde che hanno letto sul virus e ne parliamo. C) Una volta a settimana correzione compiti, che spesso si riduce ad un elenco di cosa non sono riusciti a fare e perché. Ma stanno imparando!! A vivere, ad arrangiarsi, ad aspettare, ad apprezzare le cose che si davano per scontate, ad aiutare…”. Le ho chiesto se non è preoccupata per lo svolgimento del programma e lei mi ha risposto “il programma va a rilento e se così non fosse vorrebbe dire che la nostra presenza, il nostro sguardo, i nostri gesti non fanno la differenza”.

I miei scolari sono più pochi e più piccoli di quelli di Chiara: ne ho solo quattro: due maschi e due femmine; due stanno a Madrid e due a Parma; una è di prima, due di terza e uno di quinta, quasi come la classettina che avevo a Mosio per la mia prima supplenza alla fine degli anni ’80. Parlano tre lingue, tutti e quattro studiano l’inglese e capiscono il dialetto bozzolese. A volte, per la ricreazione, si uniscono a noi i fratellini più piccoli: uno per parte. Abbiamo solo un’oretta a disposizione perché sono impegnatissimi fra compiti e altre attività: la più piccola, Cecilia, oltre a tutto il resto fa anche danza e violino, Viola si esercita nel nuoto sincronizzato, a secco, ovviamente, Niccolò ha imparato a giocare a burraco col nonno e Bruno inventa navi spaziali col Lego. Partiamo con la lettura: un brano in italiano e uno in spagnolo; chi sa meglio la lingua corregge gli altri. Spesso invitiamo esperti a presentarci un argomento. La dantista Federica Anichini ha riscritto per loro alcuni canti dell’Inferno e per il Dantedì li abbiamo letti e spiegati. Uno zio ci ha mostrato dei disegni sull’inferno di Botticelli, un nonno ha parlato della differenza fra storia e favole, una nonna, dirigente scolastica in pensione, ci ha parlato della scuola nell’antica Roma. Una mamma ci spiegherà il sistema binario.
Si avvicina la Semana Santa e i miei due cuginetti, anche se stanno a Madrid, sono andalusi e negli scorsi anni hanno assistito alle impressionanti processioni a Siviglia, le stesse processioni che io ho cominciato ad amare e capire nella Córdoba del mio Julio, grazie alla sua famiglia che è diventata la mia. Abbiamo letto insieme la poesia che Suor Lucia, una monaca carmelitana scalza, ha scritto per questa Pasqua strana che non avrà né riti, né processioni. (Qui trovate la versione integrale spagnola e la mia traduzione in italiano) “se ha guardado el incienso,/el trono, la cruz y el palio./ Y […] Cristo, igual que todos,/ está en su casa encerrado,/ y no lo dejan salir/ ni el Jueves ni el Viernes Santo…”, ma, nonostante Facebook mi abbia recentemente mandato una notifica in cui informa che la Pasqua è stata cancellata, la Pasqua arriverà, così come la primavera, nel momento in cui potremo tornare a vederci, baciarci e abbracciarci, dopo questo infinito Viernes de Dolores.
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NYC assediata dal Coronavirus, la replica di un film distopico

1 aprile, 2020, ore 22
“J’ai deux amours: mon pays et Paris”, cantava Josephine Baker, nata negli Stati Uniti e diventata la più grande diva di Parigi negli anni ’20. Ecco, io di amori ne ho tre: l’Italia, il paese dove sono nato e alla promozione del quale ho dedicato la mia vita; New York che mi ha accolto col suo stile senza fronzoli, ma con una generosità che non smette di sorprendermi e la Spagna, il paese del mio compagno, il giornalista Julio Anguita, ucciso in Iraq nel 2003 e, adesso, dei miei cuginetti.
I miei tre amori sono in questo momento i paesi più martoriati e massacrati dal Coronavirus e, seppur a distanza di migliaia di chilometri, io, la mia famiglia, i miei colleghi e i miei amici più cari siamo prigionieri nel regime di stretta clausura che dovrebbe contenere e, speriamo, debellare il virus. La mia bacheca di Facebook è un bollettino di guerra in tre lingue: amici ammalati che, con grande onestà, condividono i loro sintomi per far capire che la bestia si presenta in forme e tempi diversi. Altri che annunciano la morte dei loro cari, rendendo loro l’unico omaggio possibile di questi tempi, l’elogio funebre e le foto dei momenti felici sulle reti sociali.

Per una serie di circostanze fortuite, o per un disegno della Provvidenza, sto trascorrendo la mia clausura a Bozzolo. Adesso posso dire agli americani e agli spagnoli che il mio paese si trova in Lombardia. Una regione dal nome sconosciuto ai più fino a due mesi fa, e che adesso è nota e conosciuta in tutto il mondo come epicentro italiano della pandemia. Passo ore ogni giorno in videoconferenza con i miei colleghi della New York University. Stiamo trasformando, ciascuno da casa propria, la Casa Italiana Zerilli-Marimò da istituzione di mattoni e cemento in una centrale di attività virtuali che continuano in modi alternativi la nostra missione di diffondere la cultura italiana per creare un dialogo con tutte le altre. Uno dei miei più cari colleghi ha sviluppato i sintomi medio-lievi del virus. Un suo amico medico l’ha diagnosticato, monitorato e seguito a distanza. Da ieri sta decisamente meglio e da oggi tornerà al lavoro a pieno ritmo (da casa, ovviamente). Ci siamo inventati una visita virtuale interattiva a 360 gradi alla nostra mostra sulla propaganda politica che nessuno può vedere, stiamo lanciando un programma in stile radiofonico che andrà in onda dal vivo due volte alla settimana (il titolo, scelto in un referendum sui social sarà “Tutti a Casa”, omaggio al film di Monicelli).
La primavera insolitamente precoce rende la situazione a New York ancora più surreale, e l’insofferenza alla clausura più acuta, ma i cittadini, nonostante le direttive non siano ancora così rigide e sanzionate come le nostre, stanno dando, in generale, prova di responsabilità restando a casa. Anche se, ad esempio, l’arrivo della nave ospedale “Comfort” in porto è stato salutato da una piccola folla di persone che stavano troppo vicine tra loro e che sembravano non indossare né guanti, né mascherine, né altre forme di protezione. Molti newyorkesi non si sentono tutelati da Trump e temono la sua incompetenza e la sua vendicatività nei confronti della città in cui è nato e vissuto, ma che alle urne l’ha umiliato senza appello. Trump ha, infatti, già dato prova di concedere gli aiuti federali sulla base dell’affiliazione politica dello stato: 100% degli aiuti richiesti dalla Florida repubblicana, solo il 17% al democratico Massachusetts. ll governatore dello stato di New York, il democratico Andrew Cuomo, invece, ha dimostrato doti di leadership, fermezza e affidabilità che alcune autorevoli fonti mediatiche hanno definito “presidenziale”.

I miei amici medici si stanno preparando al peggio e guardano all’esperienza Italiana e in particolare lombarda, come a un’anteprima di quello che sta per succedere lì, moltiplicato per un numero imprecisato di volte, data la concentrazione degli abitanti e il sovraffollamento, fino a qualche giorno fa, dei mezzi di trasporto pubblico nell’area metropolitana di New York. La trasformazione dell’enorme centro congressi Javits in ospedale per pazienti Covid19, di Central Park in un ospedale militare da campo e l’arrivo “Comfort”, sono operazioni su larga scala, ma non sufficienti a contenere la magnitudine dell’ondata di malati gravi che ci si aspetta. Gli studenti all’ultimo anno di medicina si sono laureati tutti insieme la settimana scorsa invece di attendere la fine delle lezioni a metà maggio. Anche gli studenti del penultimo anno potranno già prendere servizio e svolgere mansioni normalmente svolte da medici esperti.
Qui da noi il picco del virus è stato raggiunto nel triangolo formato dalle tre delle regioni più ricche d’Italia, mentre nella grande mela sembra accanirsi, contro i più poveri. Una mappa di New York, con le percentuali di contagiati suddivisa per quartieri, mostra che i picchi di contagio coincidono con le zone più povere e disagiate. La polveriera è sempre più piena e la miccia si sta accorciando. C’è un silenzio irreale nelle strade della città che non dorme mai, ma è la quiete che prelude alla tempesta. Guardare la mia città adottiva prepararsi al peggio dopo aver vissuto il peggio qui è come vedere la replica di un film che si è appena visto. Un film distopico e neanche dei più belli.

Della mia Spagna, vi parlerò la prossima volta.
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La resurrezione dell’ospedale e il Sindaco guerriero

27 marzo 2020, ore 10:50
Dall’ultima volta che ho scritto, un po’ tutto il mondo è diventato Scarlet Zone. L’illusione che chiudere le frontiere potesse prevenire la diffusione del Coronavirus si è presto rivelata tale e l’unica chiusura che sta dando qualche risultato per rallentare il contagio è quella delle porte delle nostre case. La provincia di Mantova, da dove vi scrivo è quel triangolo di Lombardia che si incunea tra Emilia e Veneto e si trova così proprio nel mezzo della zona più duramente colpita. Il mio paese, Bozzolo (in inglese Cocoon), per adesso ha avuto un numero limitato di contagiati, ma le notizie che vengono dai paesi vicini è come se ci facessero sentire assediati dalla linea di un fronte circolare che continua ad avvicinarsi nonostante le misure straordinarie.
Il nostro ospedale, proprio davanti a casa mia, ha ricevuto la settimana scorsa il primo gruppo di malati di Covid19 e il nostro sindaco, Giuseppe Torchio è andato su tutte le furie perché non è stato informato da nessuno di questo trasferimento e lo è venuto a sapere dalla strada. Giuseppe è un guerriero, è stato deputato a Roma, ma non disdegna, se serve, di dirigere il traffico, rifilare le siepi e guidare i volontari nella pulizia della campagna circostante. Un settimanale di gossip qualche anno fa gli ha dedicato un servizio fotografico definendolo “Sindaco Stradino”, per altri sarebbe stato un’offesa, per lui un titolo di merito. In queste settimane sta coordinando dipendenti comunali e volontari per portare viveri e medicinali ad anziani ed ammalati soli in casa. Il suo cellulare è sempre acceso e risponde a centinaia di chiamate e messaggi. Ogni giorno dirama un bollettino con rassegna stampa sulla pagina Facebook “Set da Bosul” che è l’antidoto più efficace contro bufale e pettegolezzi di paese.

L’ospedale è l’orgoglio di Bozzolo: tra gli anni ’60 e ’80 era diventato una specie di clinica svizzera in mezzo alla campagna padana. Grazie ad amministratori lungimiranti e primari illuminati, i “professori” i cui nomi ancora oggi vengono menzionati con rispetto e deferenza, l’ospedale era considerato un modello. A metà degli anni ’70, le maestre ci portarono a visitare l’ala nuova, appena inaugurata, e ci apparve non solo bella, ma lussuosa. La sala operatoria era tutta rivestita di marmo verde. Neanche gli ospedali che si vedevano nei telefilm americani potevano competere col nostro. Al Liceo Virgilio, le mie professoresse di Mantova città si intenerivano a sentire il nome Bozzolo: erano venute tutte a partorire qui. Poi venne lo smantellamento progressivo e fu solo grazie alla resistenza e alla capacità strategica di Piergiorgio Mussini (già presidente dell’ospedale e sindaco del paese) che invece di una chiusura si passò a una riconversione della struttura in centro specializzato avanzato di riabilitazione motoria e cardiorespiratoria. Poi cercarono di chiudere anche quei due reparti e ventilarono addirittura la possibilità di convertire l’intero, enorme stabile in archivio di non so quale istituzione.
Il Sindaco Torchio ha tutte le ragioni di arrabbiarsi quindi. Non perché sono arrivati a Bozzolo gli ammalati di Covid19, che qui, all’ospedale dedicato a Don Primo Mazzolari staranno bene e verranno curati come e meglio che in una clinica svizzera, ma perché le autorità regionali che hanno disposto questi trasferimenti sono le stesse che, nei decenni hanno smantellato progressivamente, perché “inutili e costosi”, gli ospedali di provincia, accentrando tutti i servizi sanitari nei comuni capoluogo o dirottandoli verso strutture private. Se i macchinari e le strutture della nostra riabilitazione cardiorespiratoria fossero ancora qui nei nostri reparti, le cure che i pazienti appena arrivati ricevono sarebbero ancora più efficaci.
Concludo con due appelli: il primo a breve termine a donare fondi per l’ospedale di Bozzolo o per qualunque altro ospedale che in questo momento sta affrontando l’emergenza Covid19 e l’altro più a lungo termine a far sentire la nostra voce affinché la politica capisca che gli ospedali di provincia sono i presidi più adeguati e ben distribuiti per assicurare salute e benessere ai cittadini, non solo nei momenti di tragica emergenza, ma anche nella normalità alla quale ci auguriamo di tornare al più presto.
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Don Abbondio, Perpetua e Gertrude: si stanno diffondendo le tre nuove sindromi psico-carrateriali da coronavirus
20 marzo 2020, ore 17:12
Avvertenza: il presente testo non ha alcun valore scientifico. Si tratta di un divertissment da clausura ed è il risultato di una collaborazione tra l’autore, una consulente letteraria, manzoniana sfegatata (Bianca Mussini), e un brillante grafico creativo (Francesco Maria Mussini).
Sindrome di Don Abbondio

Il curato fifone è l’ecclesiastico che sta agli antipodi di fra Cristoforo. Il suo rifiuto di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, per paura di rappresaglie da parte di don Rodrigo, è l’inizio di tutte le disavventure della giovane coppia. La paura è la condizione esistenziale di don Abbondio: ha paura delle minacce dei bravi, ha paura dell’ira di Renzo, ha paura del rimprovero del Cardinale, ha paura del contagio della peste. Le sue paure si trasformano spesso in fobia, “pauraccia” la chiama Manzoni. La paura di per sé è una reazione normale e umana ad un pericolo imminente, ed è spesso indispensabile per far scattare l’istinto di sopravvivenza. Per fare un esempio di oggi, se la paura del contagio da coronavirus ci spinge a stare in casa, è saggia consigliera e va ascoltata. Ma la “pauraccia” (o fobia) di don Abbondio lo spinge a prendere decisioni egoistiche e irrazionali, che spesso comportano conseguenze disastrose per gli altri.
Gli effetti da sindrome di don Abbondio nell’attuale situazione di emergenza possono essere identificati tra gli accumulatori compulsivi (hoarders) che ritroviamo in fila nei supermercati coi carrelli straripanti di carta igienica e bottiglie d’acqua, due generi che non hanno nessun legame specifico con l’epidemia da coronavirus. Tutti ormai sanno, anche gli affetti da sindrome di don Abbondio, che dissenteria e diarrea sono sintomi del colera, ma non del Covid19, e tutti sappiamo che l’acqua delle città italiane è controllatissima, sicura, spesso buona da bere e può tranquillamente sostituire quella in bottiglia.
Le pauracce e le fobie ,però, a differenza della paura, causano comportamenti egoistici che danneggiano gli altri. Come il pavido rifiuto di don Abbondio di celebrare il matrimonio è la causa diretta di tutte le sventure dei fidanzati, l’accumulazione insensata di merce nei supermercati fa sì che gli altri ne restino completamente sprovvisti.
Sindrome di Perpetua

La domestica di don Abbondio è diventata così famosa da aver dato il suo nome ad una professione. È una donna del popolo, saggia e dotata di grande buon senso, le piace chiacchierare e dare pareri mai richiesti e raramente ascoltati. È una variante della sindrome di Cassandra che è stata identificata dagli psicologi come un comportamento ossessivo maniacale che porta a prevedere sempre per il futuro eventi disastrosi sia per sé che per gli altri (attenzione, questa è una sindrome vera e studiata, non inventata da me).
La Cassandra del mito era una principessa troiana così bella che il dio Apollo si innamorò di lei e le donò la capacità di profetizzare il futuro. Indispettito dal suo rifiuto, Apollo non le tolse il dono che le aveva già fatto, ma la condannò a non essere creduta. Cassandra avvertì i suoi concittadini che il cavallo di legno era pieno di soldati greci e, come si sa, il loro rifiuto di ascoltarla ebbe come conseguenza ultima la distruzione di Troia.
Perpetua è una donna umile, non profetizza, ma è in grado di prevedere cosa succederà e di suggerire come evitarlo con consigli basati su ragionamenti semplici e diretti. Ma il destino della principessa troiana e della domestica lombarda è lo stesso: non essere credute e ascoltate. Perpetua spiega esattamente al suo ‘padrone’ cosa dovrebbe fare dopo le minacce di don Rodrigo: rivolgersi al suo Cardinale Arcivescovo che sta sempre dalla parte degli umili e sa come tenere a bada i prepotenti.
Sono oggi affetti da sindrome di Perpetua tutti gli individui – non specialisti di virologia, infettivologia etc.- che fin dalle prime notizie sulla diffusione del coronavirus annunciavano scenari apocalittici, simili a quelli che, purtroppo, abbiamo sotto i nostri occhi. La realtà ha finito col dar loro ragione ancor prima di quanto pensassero e adesso possono cavarsi la soddisfazione di fare screenshots delle loro profezie e di ripetere soddisfatti “l’avevo detto io”.
Sindrome di Gertrude

La Gertrude dei Promessi Sposi è basata sulla storia vera di una nobile ragazza di Monza costretta dal padre a farsi monaca di clausura per non disperdere il patrimonio avito. Finirà col violare tutti i suoi voti e col rendersi complice di delitti raccapriccianti per i quali sarà condannata e punita.
Mai come in queste settimane di clausura forzata, tutti possiamo solidarizzare con Gertrude perché ci sentiamo, come lei “destinati a struggerci in un lento martirio” e anche noi invidiamo “in certi momenti qualunque donna [o uomo], in qualunque condizione, con qualunque coscienza, [che] potesse liberamente godersi nel mondo” (cap. X).
La sindrome di Gertrude è, in questo periodo di isolamento imposto per legge, largamente diffusa tra la popolazione, ma si manifesta con diversi gradi di gravità a seconda dell’indole e dello stile di vita al quale i soggetti sono abituati. I casi più acuti si registrano tra joggers, ciclisti e sportivi di tutti i tipi che entrano in una sorta di crisi d’astinenza dovuta al mancato rilascio di endorfine, normalmente stimolato dall’esercizio.
Oltre all’irrequietezza e al nervosismo (vedi sindrome del Leone in Gabbia), gli individui colpiti in maniera più acuta dalla sindrome di Gertrude sono particolarmente insofferenti di quanti danno segno di essersi adattati tranquillamente alla clausura. Parafrasando Manzoni: l’apparenza di pietà e di contentezza dei ‘reclusi felici’ suona ai ‘gertrudiani’ come un rimprovero dell’inquietudine e dei loro portamenti bisbetici; ed essi non lasciano sfuggire occasione di deriderli dietro le spalle come pinzocheri, di morderli come ipocriti (cfr. cap. X).
Anche se I Promessi Sposi offrirebbero spunto per la definizione di altre sindromi; si pensi ad Azzeccagarbugli, ai governanti inetti, al Conte Zio e al Padre Provinciale…, io mi fermerei qui. Questo divertimento letterario, diventato piccola impresa di famiglia, mi ha distratto dalla tragica cronaca quotidiana di un assedio che sembra farsi sempre più vicino, mi ha fatto rileggere alcune delle pagine immortali del romanzo e mi ha convinto sempre di più della grandezza multiforme di Manzoni non solo nel produrre la prosa più alta ed elegante della nostra letteratura moderna, ma anche nell’analizzare le pieghe più recondite dell’animo umano.
I personaggi dei Promessi Sposi danno il nome alle Sindromi da Coronavirus
17 marzo 2020, ore 16:00
Oggi non parlerò di Coronavirus. Di questi tempi, anche le soubrettes dicono la loro sul virus, la sua genesi e le sue cure; quindi io mi asterrò. Vi parlerò invece di sindromi che secondo la definizione del Dizionario della Salute sono “complessi di sintomi che si presentano associati in modo da configurare un quadro [morboso] caratteristico”. Le sindromi che vi presenterò sono di tipo psicologico o caratteriale e le ho visto svilupparsi in maniera esponenziale in queste settimane. Le ho chiamate col nome dei personaggi dei Promessi Sposi perché è il più grande romanzo italiano e in esso riconosciamo noi stessi e tante delle persone che ci stanno vicino. Sono sicuro che anche voi diagnosticherete una o più di queste sindromi ai vostri parenti e amici. Se me ne sono dimenticata qualcuna, fatemelo sapere e verrà aggiunta al nostro manuale.
Sindrome di don Ferrante

Il pedante con le fette di salame sugli occhi che ha letto molti libri, ma ha imparato poco della realtà. L’uomo a cui una cultura libresca fa da schermo e impedisce di vedere le cose come sono. Don Ferrante è un personaggio secondario, ma Manzoni ci tiene a descrivere dettagliatamente la sua fine. Con l’avvicinarsi della pestilenza, don Ferrante, deride i suoi contemporanei preoccupati e facendosi forte dell’autorità di Aristotele sostiene che non essendo la peste né sostanza, né accidente, essa non esiste e così che “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.” (cap. 37)
Gli individui affetti da sindrome di don Ferrante, detti anche negazionisti, erano quelli che, soprattutto agli inizi dell’epidemia di Coronavirus sostenevano che si trattasse di comune influenza o che fosse frutto di una gigantesca montatura mediatica. Gli affetti da questa sindrome sono rimasti pochi, ma rimangono molto agguerriti.
Sindrome di don Rodrigo

Di don Rodrigo, il cattivo del romanzo, Manzoni ci dice che, durante la pestilenza, passava il tempo con “amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo” (cap. 33). È il gaudente impenitente che esorcizza la paura con il vino e la crapula.
Sono severamente affetti da sindrome di don Rodrigo i fighetti milanesi che hanno affollato i navigli nelle precedenti settimane e i dabben giovani che hanno riempito le piazze e i bar di tutta Italia sbevazzando spritz e aperitivi, spiattellattondoli su Instagram, fino a quando non è stato espressamente proibito dalle autorità, anche se era stato già vivamente sconsigliato dai sanitari. Non si sa se per effettiva guarigione degli individui affetti o come conseguenza delle misure restrittive, ma fortunatamente la sindrome di don Rodrigo è quasi scomparsa oggi in Italia.
Archetipo di fra Cristoforo

Quella di fra Cristoforo non è una sindrome e non è una patologia, è piuttosto un archetipo, cioè un modello, un esemplare. Il personaggio manzoniano, forse basato su un personaggio storico realmente esistito (fra Cristoforo Picenardi da Cremona), rappresenta la dignità, il coraggio, l’eroismo cristiano. Dopo una giovinezza di agi conclusa da un duello per futili motivi in cui uccide l’avversario, Ludovico si fa frate cappuccino e dedica la sua intera vita ad aiutare, confortare, sostenere i poveri che incontra sul suo cammino. Morirà prendendosi cura degli appestati del lazzaretto di Milano.
Senza ironia e senza retorica, direi che fra Cristoforo rappresenta il modello per tutte le infermiere, gli infermieri, gli operatori sanitari e i medici che stanno facendo fronte all’epidemia di Coronavirus con turni massacranti, settimane di isolamento volontario e un livello di rischio altissimo nonostante le misure di protezione. A loro va la nostra ammirazione e la nostra gratitudine. E Manzoni sarebbe d’accordo.
(alla prossima con le sindromi della Monaca di Monza, di Perpetua e di don Abbondio)
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Il coronavirus all’attacco, ma la messa non è finita

Domenica, 15 marzo 2020, 0re 13:00
In queste ore il Cardinale di New York ha annunciato la cancellazione di tutte le Messe nell’arcidiocesi e il Vaticano ha anticipato che tutti i riti della Settimana Santa si svolgeranno sine populo. Misura che non fu presa neppure durante l’occupazione nazista e segno ulteriore dell’estrema gravità della pandemia.
Durante l’Angelus qualche minuto fa il Papa ha lodato la creatività dei preti lombardi e italiani “che hanno capito bene che in tempi di pandemia non si deve fare il ‘don Abbondio’”, e li ha ringraziati per le tante iniziative simboliche e virtuali che stanno promuovendo per sostenere e confortare i fedeli e non farli sentire abbandonati.
L’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini è salito da solo sul tetto del duomo la settimana scorsa e ha rivolto alla Madonnina dei milanesi una preghiera commovente. Oggi ha celebrato la Messa da solo nella cappella del policlinico.
Il nostro vescovo di Cremona, mons. Antonio Napolioni, che nelle due scorse domeniche aveva celebrato la Messa in streaming dalla sua cattedrale deserta e sbarrata è l’unico vescovo italiano risultato finora positivo al test. È ricoverato presso l’ospedale di Cremona e sembra stia reagendo bene alle cure. Oggi ha mandato un messaggio rassicurante alla diocesi.
È un uomo giovane e fondamentalmente sano. Dovrebbe farcela.
La Messa per noi oggi è stata celebrata dal Santuario di Caravaggio che è in diocesi di Cremona, ma in provincia di Bergamo, una delle città più colpite. Da giorni al cimitero non riescono a seppellire tutti i morti e il forno crematorio sta funzionando 24 ore su 24.

Nel momento della nostra vita e della nostra storia in cui avremmo più bisogno di un sostegno non solo psicologico, ma anche spirituale (e intendo l’aggettivo nella sua accezione più ampia e, direi, laica), la Chiesa si sforza di continuare a darlo in modi e forme diversi rispetto alla sua bimillenaria tradizione: con le Messe in streaming, i video registrati, le riflessioni condivise sui social.
Solo un mezzo rimane invariato per far sentire la voce di Dio a chi crede e a chi non crede in questi giorni bui e io voglio augurare a tutti buona domenica proprio con quello. Questo è il suono delle campane di Bologna che per volere del cardinale Zuppi suoneranno per nove sere alle 7. Mi sembra che ci aiutino a chiedere a Dio l’unica cosa che vale la pena chiedergli in questi giorni: libera nos a malo.
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Quando far la spesa diventa… un’impresa
Sabato 14 marzo, ore 11:30
La clausura forzata può provocare gravi danni psicologici: può causare ansia e tristezza cronica, scarsa reattività e depressione clinica vera e propria. Per questo è molto importante darsi ogni giorno dei piccoli compiti da eseguire oltre, naturalmente a ritagliarsi il tempo necessario per il telelavoro, per chi può e deve farlo. Ma è anche importante dare una specifica connotazione ai giorni in modo che non siano percepiti come tutti uguali. Per questo avevo deciso che oggi sabato sarebbe stato il giorno dello shopping. Ovviamente dello shopping di cibo, visto che gli unici negozi aperti sono quelli di generi alimentari, i supermercati e le farmacie.
Ieri notte ero così agitato dalla prospettiva di poter finalmente uscire di casa, prendere la macchina e guidare per qualche chilometro fino al supermercato, che quasi non ho dormito. Ovviamente durante la notte mi sono venuti tutti i dubbi: sarà obbligatorio servirsi esclusivamente presso il supermercato più vicino a casa, si potrà optare per uno a qualche chilometro di distanza? A che ora sarà meglio andare? Come posso rinforzare la semplice mascherina chirurgica di cui sono dotato?
Alle sette ero già in piedi e prima delle otto il primo davanti alla porta del supermercato ero io. Sotto la mascherina chirurgica avevo collocato una mascherina da aereo di quelle belle, di tessuto, ho tirato su la cerniera della giacca a vento fino al collo, ho alzato il cappuccio della tuta fino a quasi coprirmi la testa e sono entrato nel negozio quasi come un gladiatore nell’arena.
Per gli standard italiani, è un supermercato di media grandezza, di provincia, fa parte di una catena piuttosto nota, non è di lusso ma nemmeno un discount. Gli scaffali sono pieni e costantemente riforniti di merce fresca, in questi giorni non ho mai visto nessuno fare incetta di prodotti. Direi cha abbiamo fatto tutti spese piuttosto grosse, ma più per il disagio che la spedizione comporta che non per ammassare provviste nelle nostre dispense.
Quando ho visto l’immagine dei supermercati di New York e Londra presi d’assalto, con gli scaffali vuoti dove non si trova un pacco di pasta, una cipolla, un cartone di latte, ho pensato all’ironia della storia: noi i discendenti dei contadini padani, famosi per la fame cronica dei nostri antenati, gli arlecchini, gli zanni, immortalati da Dario Fo con una fame tale che finiscono col mangiare le loro stesse mani, noi, dicevo, siamo andati a far la spesa in questi giorni con l’aplomb di un Lord inglese dell’800: Disciplinati, moderati, educati, rispettosi delle distanze di sicurezza “passi lei, no guardi c’era prima lei, prego, prenda pure. Aspetto”. Quasi tutti, tranne due signore avevamo qualche tipo di mancherina, quasi tutti abbiamo tenuto su i guanti di plastica per la verdura fino alla cassa.
I commessi riconoscevano quasi tutti i clienti anche se coperti dalle mascherine e li chiamavano per nome con grande affabilità. L’atmosfera era familiare, accogliente e rassicurante. Di fame non moriremo, pensavo mentre spingevo il mio pesantissimo carrello alla macchina. Mi aspettavano diverse ore in cucina, dove di questi tempi è bene affrontare ricette lunghe e complicate. Sembrerà strano, ma il tempo passato cucinando un piatto elaborato è un ottimo ansiolitico in questo periodo.
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Il filos all’aperto

venerdì 13 marzo 2020, 9:30 p.m.
Da quattro giorni, da quando le passeggiate all’aperto in campagna sono state sconsigliate e le strade si sono svuotate di automobilisti e sono invece punteggiate da pattuglie che controllano documenti, richiedono autocertificazioni, sono letteralmente chiuso in casa con la mia mamma. Con le nostre vicine, Giuliana e Antonella, abbiamo un appuntamento informale ogni pomeriggio. È il filos all’aperto a distanza. Abitiamo infatti in un cul-de-sac di via Bixio con modeste villette moderne che però, data la disposizione, hanno ricreato la struttura e lo spirito di una corte contadina di altri tempi. Il filos, come molti di voi sapranno è quella pratica di sedersi attorno al fuoco di un camino, nel tepore di una stalla, o d’estate, sui marciapiedi, a chiacchierare, raccontare storie, spettegolare, ma anche cantare o pregare il rosario. Per generazioni di nostri nonni e bisnonni, il filos è stato l’unica forma di intrattenimento. E noi il filos ce lo stiamo reinventando, stando ognuno sulla soglia della sua casa o nel giardinetto antistante; alzando un po’ la voce, ci scambiamo notizie del paese, ricette, programmi TV che vale la pena vedere. Ieri la Blanche (mia mamma) ci ha persino letto ad alta voce un brano dei Promessi Sposi, quello della mamma di Cecilia, tanto per tenerci su di morale. D’altronde, anche nei filos antichi ogni tanto qualcuno leggeva novelle o brani di romanzi ad alta voce per gli altri. Ovviamente i segreti mica li possiamo spaparazzare in un filos all’aperto. Quelli li teniamo per quando potremo tornare ad avere le nostre camarille segrete. Ogni tanto facciamo anche un filos all’aperto ‘special edition’ quando arriva a casa la Edda, la nostra vicina infermiera che passa la sua giornata in prima linea in un poliambulatorio in provincia di Cremona dove tocca a lei fare il primo screening di tutti i pazienti. È stanca ed esausta Edda alla sera, ma non perde mai il suo senso dell’umorismo e riesce sempre a strapparci un sorriso, prima che ciascuno rientri nella sua casa.