Il ragazzo del sesto piano ha due grosse buste della spesa in ogni mano mentre attende l’ascensore. Dietro di lui la signora anziana del piano di sopra appena arrivata si mette in fila pazientemente, poi accenna due colpi di una tosse rauca e profonda. Il ragazzo si gira a guardarmi turbato, un po’ di sottecchi, mentre anch’io prendo posto sul pianerottolo. L’ascensore arriva: “Prego”, dice lui alla signora. “Vada vada, che io posso aspettare”, gli risponde gentile. C’è posto, insiste timidamente lui. Ma le buste sono decisamente ingombranti, l’ascensore tanto piccolo. Il ragazzo entra, fa appena in tempo a chiudere una delle due ante, che una mamma con un bambino si fionda dentro, spingendo il giovane verso il fondo. “Mi scusi, eh. Ma a mio figlio glie’ scappa, nun gliela fa più a tenerla”, dice rivolta al piccoletto che scalpita e intanto si passa le mani dappertutto, finendo appiccicato al ragazzo che fa un’altra faccia strana, mentre richiude l’ascensore. Lo guardo divertita e mi scappa da sorridere.
Sono a Roma, quartiere bene della Capitale, nei giorni del Coronavirus: rientro da lavoro in una casa accogliente e dignitosa, che da ieri abito in solitudine. La mia (unica) coinquilina ha deciso di infischiarsene di tutte le misure “a scopo precauzionale” diffuse ed è volata verso la sua Puglia, per gli ultimi scampoli di uno dei carnevali più storici e affollati d’Italia, quello di Putignano. Roma, ormai da settimane, un po’ di più dalle ultime 72 ore, tira a campare e sta ‘cor fiato sospeso’. Quasi in attesa di un nuovo imminente contagio che, qualcuno commenta, c’è da aspettarsi – presto o tardi – nella prima città italiana, già colpita di striscio.

C’è da aspettarselo dicono al bar e al mercato. C’è da aspettarselo, davanti al bancone dell’ennesima farmacia a corto di mascherine e disinfettanti – “esauriti da almeno un mese”, ripetono infastiditi alla cassa. Cresce l’ansia e le antenne si drizzano davanti allo schermo che trasmette le news della metropolitana: fuori dallo Spallanzani, l’istituto nazionale per le malattie infettive dove qualche settimana fa sono stati ricoverati i primi casi di Coronavirus in Italia, i volontari della Protezione Civile stanno allestendo un ospedale da campo per fronteggiare una possibile emergenza. Multe in arrivo, invece, per chi è transitato nei Comuni del focolaio al Nord e non avvisa immediatamente la Asl. Annunciate bonifiche extra sui mezzi pubblici e disinfettante da distribuire agli autisti dell’Atac, mascherine e guanti alle guardie delle stazioni. Chi ha la febbre, raccomanda il tg, non vada al pronto soccorso, ma chiami direttamente il 112. Chiami direttamente il 112, ripete l’anchorman, mentre la voce registrata della metro annuncia: “Treno per Laurentina in arrivo”. La gente prende posto dietro la linea gialla sulla banchina.
C’è ancora vita, sui treni. I carrelli iniziano a riempirsi, ma si fa ancora la spesa senza svaligiare i supermercati, a dispetto delle notizie ansiogene che giungono dalla vicina e lontana Milano, dove (tempo 48 ore) ci si barrica in casa, non senza aver preventivamente fatto razzia di beni di prima necessità. Milano che sospende le sue manifestazioni, i suoi monumenti più iconici. Che mette le mascherine sugli abiti glitter della Settimana della Moda. E il fiato lo trattiene, insieme a quanti provano ad attraversare la zona rossa che si allarga a macchia d’olio. Almeno stando ai numeri diffusi dai bollettini ufficiali e amplificati dai principali organi d’informazione italiani, le cui pagine web vengono ricaricate e aggiornate in maniera ossessiva, ogni 3-4 minuti dai dipendenti degli uffici.
Uffici più o meno bazzicati a Roma, a dispetto di quelli delle regioni colpite dov’è un fuggi fuggi. Nei corridoi non si parla d’altro, così come alla macchinetta del caffè. I contatti con Milano sono costanti. Si susseguono le voci, poi confermate, che quell’evento previsto in settimana verrà annullato, così la conferenza stampa di lancio e quell’altro bel festival che aveva pure il buffet compreso. Una figlia “minaccia” di recarsi dalle parti di Torino, la madre al telefono prova a far leva sul buonsenso della ragazza indomita. Che vuol partire, perché – dice – si sta perdendo il senso della misura. Misure giuste o sbagliate, rifletto io, forse noi giovani italiani siamo un po’ più abituati a fare i conti con la precarietà delle situazioni. Poche sicurezze e tante incognite, nell’inquietudine ci inzuppiamo la colazione al mattino.

Del resto, treni e aerei – disagi e controlli permettendo – continuano a viaggiare. Almeno fino a oggi. Così come le linee metro che nel weekend mi portano a respirare aria fresca. Infetta non so. Me ne preoccupo il giusto, o magari non abbastanza. Ma la situazione precipita in una manciata di ore, non ho il tempo di rendermene conto. Fortuna che non ho nemmeno il televisore in casa.
In compenso ho la mia dose quotidiana di panico telefonico. Mio padre che paventa scenari apocalittici rispolverando classici hollywoodiani del genere. Il mio ragazzo che – direttamente dal confine con la zona X del contagio – mi invita a fare incetta di beni che non siano deperibili, prima che anche qui la psicosi prenda il sopravvento: così dice dopo aver percorso la tratta Roma-Milano con 60 minuti di ritardo e una valigia piena zeppa di pasta, sughi, scatolame e altri rimedi per fronteggiare una Lombardia potenzialmente “chiusa per contagio”. Poi c’è mia madre che mi invita a non prendere i mezzi e a evitare i luoghi più affollati.
Ignorando che nei giorni appena trascorsi io abbia infranto buona parte delle regole del decalogo. Mischiandomi ai turisti del Colosseo, percorrendo a passi ben distesi via del Corso, incrociando feste di quartiere, come quella per i cento anni di una godereccia Garbatella, destreggiandomi tra i capannelli di fronte ai locali sempre pieni per i vicoli di Trastevere, con capatine a Fontana di Trevi e sulla scalinata di piazza di Spagna.

Incrociando nei miei giri romani, poche maschere e tanti volti, per parafrasare Pirandello al contrario. Per poi salire in cima all’Aventino, dove – placido e idilliaco – è il Giardino degli Aranci, luogo del ristoro dopo la salita impervia. Riparo degli amanti che si cercano in teneri abbracci sotto sguardi trasognati, il Cupolone in prospettiva, e un sottofondo di musici che dilettano i passanti riecheggiando le note di cantautori scomparsi e mai andati via. Una ragazza russa si fa spazio tra i turisti asiatici, italiani, francesi, per godere meglio della vista. Trattenere il fiato è impossibile.
Mi accomodo anch’io, tra un arancio e un angolino al sole. Nella borsa, una confezione di tonno e dell’Amuchina – trovata in quantità a prezzo maggiorato in un negozio di cinesi completamente deserto sotto casa. Che non si sa mai, meglio ascoltarlo qualche consiglio.
“Poco più di una normale influenza”, “Italia più colpita perché ha eseguito più controlli”: le ultime notizie provano a ridimensionare il fenomeno che però, come prevedibile, non si arresta, malgrado si provi il più possibile a contenerlo. Sale il numero delle persone positive al virus. Nuovi casi travalicano il continente, e arrivano giù, in Sicilia. Colpa degli insegnanti rientrati, “incoscienti” e degli studenti fuorisede preoccupati all’idea di finire isolati nel freddo Nord, “giovani senza un minimo di buonsenso che dovrebbero rappresentare il nostro futuro”, sono i primi commenti a caldo. La globalizzazione, il razzismo al contrario, le fake news, gli sciacalli, la Borsa in picchiata, le scuole chiuse. Metto via il telefono.
Lì su quell’erba, all’ombra dei pini di Roma, tra il gracchiare di un gabbiano scaltro di città e un affaccio strategico sul Lungotevere spoglio di un febbraio quasi primaverile, la minaccia del Coronavirus non ha ancora avuto la meglio.