Ebbene si, anche questa volta la tanto temuta uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è stata rimandata. Tre anni dopo il fatidico voto del 23 Giugno, si prolunga uno dei capitoli più sconvolgenti e destabilizzanti per il sistema politico di Westminster. Nel corso di questi 3 anni se ne sono viste di tutte i colori: contraddizioni e problematiche derivanti dall’assenza di una Costituzione che possa far da guida in situazioni novelle. Il sistema giuridico Britannico si basa infatti su precedenti, ed è proprio grazie a un precedente arcano di 400 anni fa che ieri lo speaker del parlamento, John Bercow, ha rifiutato di mettere ai voti l’accordo raggiunto da Boris Johnson la settimana scorsa con l’Unione Europea. Con questo accordo Boris era riuscito a scovare il cavillo che garantiva la permanenza dell’Irlanda del Nord nell’unione doganale del Regno Unito, ma al contempo permetteva ai Nordirlandesi di rimanere nell’orbita Europea attraverso un intricato sistema di dazi e regolamentazioni. Pare infatti che l’irrompente Premier Britannico avesse finalmente trovato il bandolo della matassa per convincere i membri del D.U.P – il Democratic Unionist Party Nordirlandese – a votare il suo accordo e dunque a garantirgli la maggioranza necessaria per uscire dall’Unione in “maniera ordinata”. Tant’è vero che Venerdi pomeriggio, la Sterlina registrava un guadagno settimanale dell’1,6% rispetto al dollaro. Ma il tutto è crollato quando Sabato il parlamento ha votato a favore dell’emendamento Letwin, il quale obbliga Boris a mettere al voto tutto il pacchetto legislativo della Brexit prima del voto decisivo sul suo accordo.
Ed ecco quindi che si giunge alla giornata di ieri, quando Boris tenta invano di convincere lo speaker Bercow ad ignorare l’emendamento Letwin e a far votare direttamente il suo accordo al parlamento. Ma nulla da fare, Bercow non si fa abbindolare. Si inaspriscono le accuse di chi vede lo speaker come un politico di parte che sta utilizzando la sua profonda conoscenza dei regolamenti parlamentari per mettere i bastoni fra le ruote della Brexit. Fatto sta che Boris non si perde d’animo e oggi sottoporrà l’intero pacchetto legislativo della Brexit al parlamento, proprio come richiede l’emendamento Letwin. Ora il rischio è quello di un’ondata di emendamenti provenienti dall’opposizione, con lo scopo di prolungare la Brexit oltre la data “limite” del 31 Ottobre. I laburisti hanno già annunciato di voler mettere al voto due emendamenti: il primo chiede un secondo referendum che possa cancellare la Brexit, mentre il secondo chiede che la Gran Bretagna resti nell’unione doganale Europea. Ad oggi i numeri suggeriscono che almeno il secondo emendamento possa passare, il che metterebbe a dura prova l’accordo raggiunto da Boris, che non prevede la permanenza dell’Albione nell’unione doganale. La procedura d’uscita rischia dunque di incancrenirsi in una lotta a colpi di emendamenti tra governo e opposizione.
Nel frattempo, fuori dai giochi di palazzo, c’è un paese col fiato sospeso. Ieri, decine di migliaia di “remainers” si sono riuniti davanti al parlamento Britannico per far sentire la propria voce. La maggior parte di loro è favorevole a un secondo referendum che possa far cambiare l’esito del primo. Ma questa è una richiesta che difficilmente andrà in porto dato che Boris Johnson “preferirebbe morire” piuttosto che chiedere un nuovo rinvio all’Europa. Lo dimostra il fatto che Sabato sera, dopo il passaggio dell’emendamento Letwin, Boris ha scritto due lettere all’Unione Europea: la prima, non firmata, chiedendo un ulteriore estensione per la Brexit, e la seconda, firmata, dichiarandosi completamente contrario ad un prolungamento. Piuttosto, è assai più probabile che Boris, sentendosi chiuso in un angolo, decida di buttare tutto all’aria e indire nuove elezioni, con la speranza di rafforzare i propri numeri in parlamento cosi da poter far passare il suo accordo. Le ultime intenzioni di voto danno il partito Conservatore in vantaggio di 10 punti sul partito Laburista (35%-25%), mentre il partito Liberale si posiziona terzo con il 18%. Nel caso di nuove elezioni c’è dunque la possibilità di un accordo post-voto tra Liberali e Laburisti per evitare un nuovo governo Conservatore, cosi da prendere in mano le redini della Brexit. Forse proprio per questo motivo Boris non ha ancora avuto il coraggio di chiamare nuove elezioni.
Ma a tutto questo si deve aggiungere la variabile del Brexit Party di Nigel Farage che può diventare una vera mina vagante nel caso ci fossero nuove elezioni. Il partito “lampo” di Farage, che si era classificato primo nelle scorse elezioni europee con il 30,5%, ha decisamente perso seguito da quando a capo dei Conservatori c’è Johnson al posto della May. Rimane però una nicchia dell’elettorato, attorno al 12%, che continua a supportare l’esperimento di Farage. Un 12% che potrebbe regalare a Boris la vittoria su un’inedita alleanza tra Laburisti e Liberali. Johnson deve quindi stare molto attento a non far indispettire l’elettorato di Farage, il quale rimane favorevole a una “hard-Brexit” nel caso non si trovasse un accordo prima del 31 Ottobre. Se veramente ci fosse un rinvio per permettere nuove elezioni, Boris dovrà giustificare la propria scelta a quel pezzo di elettorato ex-conservatore, che rimane di fondamentale importanza per la sua rielezione.
Se non riuscisse nel convincimento, cambierà l’esecutivo, e dopo tutto – ma proprio tutto – tornerebbe in gioco.