Una promessa per sempre è un libro scritto a quattro mani da Silvia Maira e Valerio Sericano. Liberamente ispirato ad una storia vera, questa nuova fatica letteraria nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia sconosciuta a molti, sotterrata nel substrato della memoria, ma sempre attuale e viva per chi vuole portarla in auge nel rispetto di chi non c’è più e merita di essere ricordato.
Un libro che vuole raccontare la seconda guerra mondiale sotto una prospettiva diversa, nuova, lontana dai colori e dalle sfumature a cui siamo abituati. La storia raccontata in queste pagine prende spunto da fatti realmente accaduti e si articola su due piani narrativi diversi, ambientazioni diverse che vanno dagli anni 40 agli anni 60. Negli anni 40, viene descritta minuziosamente una Sicilia fortemente legata all’agricoltura, alla pesca e all’artigianato, mentre invece, negli anni 60 viene descritta la rinascita di una paese che vuole lasciarsi alle spalle le ferite post belliche. Una guerra che non ha risparmiato nessuno e che improvvisamente ha interrotto il normale ciclo vitale di intere famiglie che hanno perso tutto. Una storia d’amore che si intreccia con gli orrori della Seconda Guerra Mondiale non ancora cancellata dalla mente e una tranquillità apparente che si scontra con gli eventi che portano i protagonisti del romanzo a fare i conti con il passato.
Abbiamo intervistato Silvia Maira, che ci ha raccontato del libro attraverso le parole e anche attraverso delle esclusive testimonianze fotografiche che ci ha gentilmente concesso.
– “Una Promessa per sempre” è un libro che racconta la storia di una giovane donna, che indaga sulla sua vita e scopre i segreti di un passato omertoso e silenzioso. Come nasce questo libro?
Nasce dopo una lunga riflessione e dalla voglia di far conoscere una parte di storia che non viene raccontata nei libri. È la storia di eroi sconosciuti e dimenticati. Nasce dalla voglia di raccontare uno spaccato della Seconda Guerra Mondiale non tanto con l’occhio dello storico ma con quello di una persona qualunque. La guerra vista e vissuta dalle famiglie dei militari, la guerra raccontata da chi si sentiva lontano dal contesto, da chi ci si era ritrovato suo malgrado.
– Come nasce la collaborazione con Valerio Sericano?
Ho conosciuto Valerio Sericano quando sono entrata a far parte della rosa di autori della casa editrice Lettere Animate con il mio libro d’esordio. Anche lui aveva pubblicato il suo primo libro con la stessa casa editrice. Ho letto i suoi libri e già conoscevo il suo stile narrativo. Qualche anno fa, avevo deciso di partecipare ad un concorso letterario con un breve racconto dal titolo La Promessa. Quel concorso non l’ho vinto, ma in cuor mio speravo di riuscire, prima o poi, a far conoscere quella storia. Così pensai di far leggere il racconto a Valerio, profondo conoscitore della Seconda Guerra Mondiale, per avere un suo parere. Valerio apprezzò da subito quel breve racconto in cui parlavo dell’affondamento di una nave (di cui ancora non conoscevo il nome) in cui una persona vicina alla mia famiglia aveva perso la vita e il cui corpo non era mai stato trovato. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto approfondire la storia e lui si mostrò disponibile ad aiutarmi nel reperire le notizie storiche. Così la buttai lì e gli chiesi se gli fosse piaciuto scrivere un quattro mani che raccontasse la storia di quell’affondamento. Da quel giorno, ci siamo impegnati entrambi a cercare notizie, immagini, documenti che parlassero della vicenda. Le notizie sono poche, frammentarie, difficili da trovare. La nave Avviso Veloce Diana della Regia Marina è un numero, solo una delle tante navi che sono affondate durante la guerra. I militari sono numeri, 334 persone disperse in mare. Per le famiglie però non è così, ognuno di quei 334 morti è un padre, un figlio, un marito che non è più tornato dalla sua famiglia.
Contemporaneamente, dei diari originali scritti da un prigioniero italiano in America: mio nonno, Domenico Andreoni, fratello di Pasquale, preso prigioniero a Scoglitti nel luglio del 1943, ci hanno permesso di ricostruire un altro spaccato di quella guerra. Nei diari ho trovato appunti su come si viveva nei campi di prigionia in America. Partendo da quelle notizie, abbiamo spulciato archivi e vecchie pubblicazioni che ci hanno consentito di ricostruito il delicato momento dello sbarco degli Americani sulla spiaggia di Scoglitti, la presa in prigionia dei nostri soldati che erano del tutto impreparati a fronteggiare l’avanzata americana, e infine il viaggio via mare dall’Italia in America. Grazie ai diari siamo riusciti a sapere quale musica si ascoltasse in America negli anni della guerra, come Ella Fitzgerald, Bill Crosby e Luis Armstrong, che notizie arrivassero dall’Italia, quanto potesse costare un paio di lacci da scarpe, quale fosse la ditta che forniva il materiale di cancelleria ai soldati. Un lavoro minuzioso e preciso che aveva come scopo quello di scrivere non un libro sulla Seconda Guerra Mondiale, ma quanto la guerra avesse cambiato la vita di una famiglia. È stato un lungo lavoro di ricerca e di ricostruzione di fatti e vicende.
– Un libro dai contorni autobiografici, che racconta la comunità siciliana durante la guerra e quella degli anni Sessanta . Quanto era cambiata la Sicilia in quel periodo? Come mai hai deciso di raccontare proprio queste due polarità?
La storia prende spunto da una vicenda vera e la fidanzata di Pasquale è stata supplente di Lettere al liceo classico proprio negli anni ’60. Questa circostanza spiega la scelta di ambientare la storia in quegli anni. La trama viene dislocata su due diversi piani temporali ed è raccontata attraverso la tecnica del flashback. Ciò ci ha permesso di mettere a confronto gli anni ’40 e gli anni ’60. Nei primi troviamo una Sicilia semplice, con ritmi di vita lenti, fatta di piccole cose. L’economia basata sulla pesca, agricoltura e artigianato. Valori forti come quello dell’amicizia, della famiglia e dell’amore. Abbiamo raccontato la nascita di un amore in quegli anni. Era fatto prima di sguardi, poi di frasi timide e gesti galanti, come la serenata cantata davanti la casa dell’amata. Abbiamo descritto una tipica festa di fidanzamento, con l’orchestra in casa. Parallelamente abbiamo descritto la vita negli anni ’60, anni di rinascita, di progetti e speranze in cui si aveva la voglia di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare a costruire un mondo migliore. Tutto ciò traspariva nella musica, specchio fedele di quegli anni. Celentano con le sue canzoni rompeva gli schemi tradizionali e il rock sbarcava in Italia. Dall’altro lato c’era la musica dolcissima di Gino Paoli e di Nico Fidenco.
– Una guerra che ha decimato vittime. Quali sono gli strascichi emotivi che ha lasciato la guerra in questa storia?
La guerra ha lasciato segni tangibili in molte famiglie. C’è chi ha perso la casa, chi la casa e il lavoro e chi ha perso i famigliari. In questo libro, in modo particolare, la guerra è la fine di tutto. È la fine della vita e di tutti i progetti che ad essa erano legati. Lascia un senso di amarezza, un profondo dolore sopito dal tempo ma mai del tutto cancellato. Lascia lo struggente ricordo dei cari scomparsi, la domanda martellante del perché tutto questo dolore e l’impotenza di fronte a ciò che non potrà mai essere cambiato.
– Perché hai deciso di raccontare questa vicenda?
Ho deciso di raccontare questa vicenda, in parte ispirata ad una storia vera e in parte romanzata, per rendere omaggio alla memoria di Pasquale Andreoni in modo particolare e in modo più ampio a tutti gli scomparsi in mare in quella drammatica vicenda. È un omaggio ad eroi sconosciuti, gente che ha sacrificato la vita in nome della patria, ma di loro non parla nessuno, nessun libro, nessun giornale.
– Che ruolo ha avuto l’America in questa tua storia?
“Si stava meglio da prigioniero in America che da soldato libero in Italia” così raccontava un ex prigioniero di guerra, Mimì, fratello di Pasquale Andreoni, che nei campi di prigionia di Weingarten nel Missouri e in Virginia, aveva avuto modo di studiare l’inglese attraverso dei libri che gli aveva regalato un singolare cappellano militare. Singolare perché amava giocare a bocce e quando perdeva, imprecava! Si stava meglio diceva, nonostante l’unica frutta che avesse mangiato in tre anni fossero le mele. Si stava meglio in America perché era più facile morire in Italia, affrontando la guerra spesso con armamenti inadeguati. L’America era l’altro mondo, quella parte che un siciliano non riusciva nemmeno a immaginare. Era un mondo da scoprire che nell’immaginario generale rappresentava l’alternativa migliore all’Italia. L’America era la novità, la Coca Cola, che arrivava sulla tavola di un’anziana siciliana grazie al figlio rientrato a casa dopo la guerra, era qualcosa di bizzarro che non valeva nulla rispetto al succo d’uva fatto in casa!
– Quali sono stati i luoghi che ti hanno ispirato per la narrazione?
Senza ombra di dubbio la mia città e la Chiesa di San Giovanni che, affacciata direttamente sul mare, si erge a difesa dei marinai, quando per un buon pescato escono e sfidano il mare. Il liceo classico della mia città, che fa da sfondo a gran parte della storia, è un altro luogo importante. Il personaggio di Venere ha preso spunto da una professoressa che ha insegnato in quel liceo seppure se per una breve supplenza.
– Tornando all’elemento autobiografico. Cosa c’è di tuo e della tua storia personale in questo libro?
Sono cresciuta ascoltando i racconti di Pino, Mimì e Nina Andreoni sul fratello scomparso in mare. Pasquale era il più grande, il più bello tra loro dicevano. Era solare, aveva tanti amici, gli piaceva ballare, aveva studiato al liceo classico, era iscritto in giurisprudenza e aveva una fidanzata che attendeva il suo ritorno. Pasquale è scomparso in mare, inghiottito dalle acque. Niente corpo, niente funerale. Solo una lettera in cui è stato detto alla famiglia che era nel numero degli scomparsi. I tre fratelli hanno tentato, pur sapendo che fosse stato inutile, di cercarlo, di avere sue notizie, sperando che fosse magari smemorato in qualche remoto angolo di mondo. Ma Pasquale è rimasto lì, al largo della Libia, esattamente dove è affondato il Diana alle 11:15 del 29 giugno 1942.
Sua madre, donna Pia Caruso, vestì il nero per tutta la vita, come se la sua stessa vita si fosse fermata alla 11.15 di quel giorno. Gli altri figli si sposarono, lei diventò nonna, ma quel vestito nero e il volto spento divennero una costante nella sua vita.
Pasquale è un mio prozio.
– C’è un messaggio o un appello che vuoi lanciare a qualcuno?
Sì, vorrei trovare altri famigliari degli scomparsi nell’affondamento del Diana. C’è un blog in cui si lancia lo stesso appello, ma ancora siamo in pochi.