Il 10 dicembre 1910 al teatro Metropolitan di New York Arturo Toscanini dirigeva in prima assoluta La fanciulla del West, che sarà replicata fino al 2011 per 104 serate. Interprete anche l’altro mattatore del teatro lirico dell’epoca fu Enrico Caruso. Giacomo Puccini era arrivato nella metropoli il 1907 ed era rimasto affascinato dal dramma di David Belasco, The girl of the Golden West.
Il musicista non era nuovo a questi esperimenti sulla realtà inesplorata e fuori dalle tematiche ottocentesche. Lo attiravano l’attualità e le vicende del meraviglioso e dell’esotico. Si pensi a Madame Butterfly. Qui la terra dell’Ovest con il gangster Ramerrez, l’immancabile saloon ai piedi della Sierra, la Polka, la bella dei nostri fumetti Minnie, gli immancabili cercatori d’oro e lo sceriffo con la stella a cinque punte sul cuore. L’intero immaginario collettivo del West. Non mancavano gli altri ingredienti, i pistoleri e la corsa all’oro con le cocenti delusioni, presente in controluce il pellerossa Billy Jackrabbit rimproverato, perché aveva reso incinta la serva pure indiana Wowkle.
L’ingegnosità di Puccini e della sua trasposizione lirica ci porta alla fama popolare della storia assai complessa del post Columbum, e in questi tempi di astioso revisionismo e all’avvicinarsi della data commemorativa della casuale scoperta del Continente è illuminante al riguardo una schematica analisi del progressivo sviluppo della legislazione che riguardò i Pellerossa. Essa seguì di pari passo il procedere della conquista e documenta il doloroso e inumano, l’inarrestabile processo della rapina e della spoliazione da parte dei bianchi aggressori.

L’invasione del continente da parte degli Europei, si badi dei soli europei, vale a dire inglesi, spagnoli e portoghesi, nessun italiano come gruppo etnico, non fu una semplice emigrazione verso una Stato costituzionalmente organizzato, come avviene oggi con le grandi migrazioni verso l’Europa, verso i paesi asiatici più ricchi o verso gli Stati Uniti da parte dei milioni di messicani, spauracchio di Trump e arma di condizionamento politico, espresso dalle odierne, numerose e democratiche, cortine di ferro, muri altissimi e filo spinato, Ungheria e ancor prima Israele docent.
Sbarcati nell’illusione di immense ricchezze, i primi immigrati si trovarono in una terra ostile, lo sanno ancora i ricchi di New York o Chicago, gelo invernale e inferno estivo. E si smarrirono in aride praterie sconfinate e canyon vertiginosi. Oltre tutto quelle terre erano occupate da tribù autoctone, i cosiddetti ‘nativi’, a regime autonomo e senza una parvenza di Stato organizzato. Allora i nuovi arrivati non ebbero bisogno di passaporto, impronte digitali e oculari, né di metal detectors a piedi scalzi. Sbarcarono semplicemente, senza controlli, come non avveniva e meglio che a casa loro. Poi per dirla eufemisticamente “allontanarono” dalle loro tendopoli e dai piccoli agglomerati abitativi i legali proprietari. Come? Imponendo trattati coercitivi ed iniqui, talvolta anche con improbi accordi reciproci. In genere l’appropriazione del territorio avvenne con una brutale e cruenta espulsione, sic et simpliciter.
D’altronde non mancò l’avallo della Chiesa, se il vescovo di Santa María de La Antigua del Darién in Panama, prima diocesi eretta da papa Leone X (bolla del 1513 Pastoralis officii debitum), il frate minore Juan de Quevedo Villegas già nel 1519 poteva affermare che gli indiani delle Americhe erano a mala pena uomini e la schiavitù era il mezzo più efficace ed in realtà l’unico utilizzabile con loro. Leggo in Catholic Encyclopedia sotto il suo nome (vol. 12. New York: Robert Appleton Company, 1911 e 2019) ed inorridisco:
«Quevedo declared that all the aborigines of America, as far as he had observed them, appeared to be a race of men whom it would be impossible to instruct or improve unless they were collected in villages or missions and kept under continual supervision. In this he was right, as all subsequent experience has shown» (così gli aborigeni australiani). L’autore aggiunge addirittura che «Las Casas accused Quevedo of having violated a trust, accumulated wealth, and neglected the Indians; but Las Casas was frequently unjjust in his condemnations (!!!)».
Chi ha seguito il moderno epos dei western può farsene una semplice pallida idea. Non ci fu neppure il pudore di celare lo sterminio: i nativi erano cacciati a forza dalle loro terre produttive e adatte all’agricoltura e all’allevamento, i grandi spazi per bisonti e cavalli, e relegati in zone improduttive ed inutili (cf. U.S. History, Pre-Columbian to New Millennium, online, con foto sconvolgenti). Oggi su 567 tribù storicamente riconosciute sono presenti 326 Indian reservations, federalmente riconosciute, un milione circa di nativi su un’area di 227 mila km2.
Il “Piano per la futura gestione degli Affari indiani” (Plan for the Future Management of Indian Affairs) del 1764 fu il primo atto coloniale con l’adozione unilaterale di norme sull’esproprio delle terre ai legittimi proprietari: esso già stabiliva almeno che l’acquisto, pubblico, sarebbe stato riservato ai governi delle colonie e non ai singoli privati. Per farci un’idea il dirompente Tea act fu del 1773 assieme ai Coercitive acts che segnarono la rottura con la madre patria che ipotizzò per questi coloni la resa in schiavitù. Il 4 luglio 1776 Jefferson redasse la dichiarazione di indipendenza che sancì la forma repubblicana del nuovo Stato. Alla fine della lunga guerra nel 1783 la pace di Parigi confermava la costituzione in Stati Uniti di America delle prime tredici colonie inglesi. Con essa si sanciva la conferma della conquista delle terre ad est del fiume Mississippi e la spoliazione degli Indiani di tutti i diritti di proprietà (cf. Remarks on the Plan for Regulating the Indian Trade, “Piano per la futura gestione degli Affari indiani”, [September 1766-October 1766], Draft: Library of Congress). L’11 marzo 1824, John C. Calhoun ricorse alla unilaterale stipula di 38 trattati con le svariate tribù, attraverso il Bureau of Indian Affairs, divisione del Dipartimento della Guerra (ora detto ipocritamente ‘della Difesa’, come in Italia).
Ma non era finita. Nel 1830 si passò alla legge sulla deportazione degli Indiani (Indian Removal Act), nota come Trail of Tears, e la deportazione delle Cinque Tribù civilizzate nell’Oklahoma, Stato dove nel 1851 con l’Indian Appropriations Act furono istituite le prime riserve. Il cerchio dell’esproprio e della relegazione coatta si era storicamente chiuso. Gli Stati Uniti erano proprietà assoluta dei bianchi, nuovi arrivati.
Non si concluse ancora la tragedia di un popolo sequestrato. Nel 1868 il presidente Ulysses S. Grant con la sua “politica di pace” operò l’assimilazione forzata con la sostituzione di religiosi, più presenti i Quacqueri, per dirigere le agenzie indiane, vere e proprie missioni. E si giunse alla guerra per ricacciarli nelle riserve, le più note le Guerre dei Sioux.
Ancora nel 1887 con il Dawes Act o General Allotment Act la musica cambiò e si assegnarono piccole particelle a singoli membri delle tribù. In alcuni casi la terra in eccesso fu assegnata a coloni bianchi. Così si proseguì nel 1934 con la Indian Reorganization Act o Howard Wheeler Act o Indian New Feal: si invertì parte della precedente privatizzazione e si rallentò o omise l’assegnazione di lotti a singoli individui.
Questa la sintesi a volo di uccello dei processi che portarono alla lunga e complessa, tragica divisione delle terre. Fino ad oggi essa solleva dispute e processi, celebre fra tutti quella sulle terre delle sacre Colline Nere da parte della tribù dei Lakota Sioux, che si appella al Trattato di Fort Laramie del 1868. Così pure sono aperte ancora le rivendicazioni degli Haudenosaunee irochesi su terre dello Stato di New York settentrionale o la disputa dei Navajo-Hopi su terre dell’Arizona settentrionale. Naturalmente lo sviluppo dell’industria petrolifera ha suscitato altre contestazioni, per tutte quella dei Sioux di Standing Rock che lamentano il disastro ecologico delle loro terre per la costruzione del Dakota Access Pipeline.
Oggi a gestire i rapporti tra Indiani delle riserve e Governo Federale sono due agenzie, il Bureau of Indian Affairs e l’Indian Health Service. Tutti sanno del degrado dei riservisti, fra alcool e gioco d’azzardo, violenza domestica e miseria che ne fanno cittadini di un paese paragonabile a quelli in via di sviluppo, da terzo mondo.
Riflettete, gente, solo in Australia si è perpetrato identico crimine. Fino a giungere nel 1788 all’invio in Australia, decretata come continente prigione, di detenuti con la First Fleet di undici vascelli (il 26 gennaio, oggi per somma irrisione Australian Day) e poi di altri di prostitute, 160 mila fra il 1788 e il 1868. L’ultima nave di indesiderati approdò nel Nuovissimo Mondo intorno alla metà degli anni ‘50. Eppure nessuno osa definire genocida James Cook, lo scopritore. Eravamo indignati giustamente per i terribili gulag di sovietica memoria (il coraggio di Aleksandr Isaevič Solženicyn con la sua Una giornata di Ivan Denisovič). La Gran Bretagna era invece giudice al processo di Norimberga.
Eppure nel 2008 Kevin Rudd, premier laburista dell’Australia, ha chiesto pubblicamente scusa, anche se a scopi politici, per i 150 mila bambini deportati dall’Inghilterra in Australia e Canada dal 1930 al 1970, la “Stolen Generation” (“Generazione rubata”), ma anche per gli aborigeni che però continuano ad essere prigionieri nelle riserve recintate e in zone desertiche (nota ai turisti Uluru – Ayers Rock con il maestoso monolito sacro).
Così platealmente cominciava la sua “Apology to Indigenous Australians” (in stile demostenico):
«I move:
That today we honour the Indigenous peoples of this land, the oldest continuing cultures in human history.
We reflect on their past mistreatment.
We reflect in particular on the mistreatment of those who were Stolen Generations—this blemished chapter in our nation’s history.
The time has now come for the nation to turn a new page in Australia’s history by righting the wrongs of the past and so moving forward with confidence to the future.
We apologise for the laws and policies of successive Parliaments and governments that have inflicted profound grief, suffering and loss on these our fellow Australians.
We apologise especially for the removal of Aboriginal and Torres Strait Islander children from their families, their communities and their country.
For the pain, suffering, and hurt of these Stolen Generations, their descendants and for their families left behind, we say sorry.
To the mothers and the fathers, the brothers and the sisters, for the breaking up of families and communities, we say sorry.
And for the indignity and degradation thus inflicted on a proud people and a proud culture, we say sorry.»
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