Il giorno dello sbarco sulla Luna ero anche io incollato al televisore. L’emozione di vedere Neil Armstrong saltare per la gioia sulla sabbia lunare fu enorme. Mi sarebbe piaciuto essere là con lui. Ero appena tornato dall’Imperial College dove, assieme al collega con il quale condividevo la ricerca, avevamo discusso le nostre misure sulla trasparenza dell’atmosfera. Presso di loro avevamo ricevuto accoglienza e accondiscendenza. Avevamo scoperto in natura ciò che loro avevano scoperto in laboratorio. I nostri dati erano perfettamente sovrapponibili ai loro, mai i nostri erano ottenuti guardando, da Terra, il Sole che inseguivo con un dispositivo che avevo costruito in laboratorio. Durante la giornata si vedevano le variazioni ad occhio nudo, quelle stesse che io stavamo misurando. Misuravamo per la prima volta la variazione del vapore d’acqua, i gas atmosferici, compresa la CO2, ma anche gli aerosol. La radiazione entrante a onda corta, visibile e vicino infrarosso, emessa dal Sole, veniva bilanciata da quella uscente dalla Terra infrarossa. Le misure di questi gas permettevano di studiare per la prima volta, in modo quantitativo un processo che sapevamo che era alla base dell’effetto serra, fino allora solo teorizzato.
Con queste competenze mi accingevo a vedere lo sbarco sulla Luna. Le nostre competenze erano ancora semplicistiche, il passo che l’uomo stava facendo avrebbe rivoluzionato il nostro modo di vedere la Terra e il Sistema Solare. Non era solo un sogno era la realtà che si presentava ai nostri occhi profani. Io che mi era avvicinato alla scienza inseguendo il dettato della scuola di Vienna, guardavo con occhi profani questo passaggio. Non era solo un sogno era una nuova era che mi avrebbe permesso di vedere e andare verso altri mondi.
Le misure fatte sulla Terra, usando l’energia irradiata dal Sole, potevano anche essere fatte su altri pianeti, in primis sulla Luna. Avremmo potuto capire meglio i meccanismi che regolano il nostro Sistema Solare e la Terra.
I viaggi sulla Luna furono sei, dall’Apollo 11 del 20 Luglio 1969 all’ultima, Apollo 17, fatta l’11 dicembre 1972. La missione Apollo 13 ebbe incidenti di varia natura per cui non raggiunse mai la Luna. Poi più nulla. I costi erano diventati enormi e l’amministrazione Nixon le cancellò puntando sullo sviluppo dello Space Shuttle e su missioni ad orbite basse.
I primi satelliti di osservazione della Terra diventarono veramente operativi con i primi Landsat, iniziati nel 1972, che permisero di vedere la Terra dallo Spazio. Erano poco più di macchine fotografiche a bassa risoluzione. Negli anni 80 finalmente con la creazione della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), i sistemi di osservazione della Terra diventarono adulti ed io potevo finalmente rovesciare il mio punto di osservazione e guardare la Terra dall’alto da quello spazio che a vent’anni avevo guardato in televisione. Non stavo ancora sulla Luna, ma un piccolo passo l’avevo fatto anch’io. L’Istituto che avevo fondato nel 1983 e di cui ero direttore l’Istituto per le Metodologie Geofisico Ambientali del CNR era vocato a vedere la Terra dallo Spazio, combinando le misure con i modelli che prevedevano le dinamiche degli Oceani e della Atmosfera, quei modelli e quelle misure che ora usiamo per fare la previsione meteorologica e climatica. Elaboravo dati di altri, ma volevo anche contribuire ad essere artefice dei satelliti che misuravano i vari parametri che permettono la vita sulla Terra, contribuire anche alla realizzazione di missioni planetarie. L’European Space Agency, l’omologo Europeo della NASA, diede a me e ad alcuni colleghi tedeschi l’incarico di sviluppare lo strumento Global Ozone Monitoring Experiment (GOME), montato sul satellite European Remote Sensing satellite 2 (ERS2). Un grosso esperimento per lo studio dell’Ozono a cui contribuirono le industrie italiane e la comunità scientifica internazionale.
Ormai la mia vocazione era definitivamente consacrata dalla realizzazione di un satellite di vaglia. Dopo poco, nel 2000, passai all’Agenzia Spaziale Italiana che in quegli anni era in pieno sviluppo. Nacque la costellazione Cosmo Sky Med, quattro satelliti dotati di Radar Sintetici (SAR) in banda X. Un grande risultato della nostra comunità scientifica e della nostra industria. Ma ancora la mia passione per lo spazio mi spingeva a guardare oltre, si parlava di missioni planetarie guidate dall’uomo con lo sbarco sulla Luna e poi su Marte. Ero alla NASA quando Spirit e poi Opportunity arrivarono su Marte. La nostra conoscenza di Marte da allora cambiò drasticamente e sulla spinta dell’industria l’amministrazione Bush padre decise di colonizzare Marte, il gemello piccolo della Terra. Nacque il progetto di Terraformare Marte.
La mia domanda questa volta era: riusciremo ad arrivarci vivi? Assieme ai colleghi medici e biologi studiammo il problema da tutti i punti di vista ed alla fine giungemmo alla conclusione che con le attuali tecnologie è impossibile raggiungere Marte vivi. Per effetto della radiazione le ossa diventano fragili, i neuroni si bruciano, l’organismo soggetto al lungo viaggio si indebolisce e quando giunge a destinazione si trova a vivere in un pianeta che ha circa il 40% di accelerazione di gravità della Terra. I processi cellulari abituati alla gravità terrestre sarebbero alterati in modo imprevedibile. Alle spalle però c’è una industria che preme anche per altre ragioni, non propriamente per sete di conoscenza.
In fondo quando decisi di dedicarmi alle missioni spaziali pensavo che fossero e dovessero essere utili all’uomo. Dovevano essere foriere di nuova conoscenza per l’uomo e la sua vita. Dopo 50 anni sono così convinto che sto studiando il comportamento delle cellule nello spazio per sfruttare queste conoscenze che ne derivano a Terra. Se dovessimo andare a colonizzare altri pianeti lo dovremmo fare con la consapevolezza che questo debba essere nell’interesse dell’umanità intera.