Avevo deciso di ridurre la mia presenza qui perché molto disamorato. Mi pare che alla fine Facebook non serva quasi a niente. Ma su questa storia della volontaria rapita in Kenya sento di dover dire qualcosa, se non altro perché sono stato in Africa un’infinità di volte, sia per lavoro sia anche per soddisfare le mie “smanie di altruismo”, come le definisce Gramellini. E quindi, persone come questa ragazza penso di averne viste parecchie.

Io non sono un buonista. Semmai in passato avrei potuto definirmi un marxista, ma ho abbandonato presto anche questa “parrocchia”, studiando scienze politiche. Certo, ho sempre creduto che bene è bene e male è male. Bene è aiutare il prossimo, male è ammazzarlo, ma anche fregarsene, girarsi dall’altra parte. Questo non è marxismo né buonismo, è quello che i genitori insegnavano ai figli. E il radical-chicchismo non c’entra niente perché questi valori li trovavi nelle famiglie normali, punto. Alla fine di tutto, dopo tutti i distinguo, tutte le analisi e tutte le premesse, più o meno sofisticate, devi cercare di fare il bene e di evitare il male. È tutto qui, e non è poca cosa.
Ma senza fanatismi. La maggior parte dei cooperanti che ho visto in Africa, preti compresi, beh, non mi sono sembrati dei fanatici. Mi sono sembrate persone che cercano di fare del loro meglio. A volte molto preparate, molto “dentro” alle questioni locali. Non ingenue né sprovvedute. Ci riescono, a fare quello che si impegnano a fare? A volte sì, altre volte no, anche questo è normale. Chi non fa non sbaglia, giusto?

Naturalmente non è necessario andare in Africa per fare il bene. Lo si può fare anche a casa propria. Ma ho notato che chi sta con i poveri, gli ultimi, i perseguitati, in Africa, o altrove, in genere si comporta bene anche a casa sua. Mentre quelli che se ne sbattono di come si sta dall’altra parte del mondo, quelli che non provano nemmeno un briciolo di empatia verso le sofferenze “lontane”, se ne sbattono anche di come stanno i loro vicini. L’altruismo è un’inclinazione, una propensione, un modo di essere, prima che una tecnica o una competenza. Chi vuol circoscrivere troppo i confini della solidarietà, spesso non è interessato alla solidarietà in sé, ma alla conta, all’arruolamento. Punta a creare una banda, un manipolo. “Cosa nostra” è un nome molto eloquente. Cosa Nostra è solidale, con i propri affiliati. L’altruista non ti chiede la carta di identità, e neanche un giuramento. Prova a soccorrerti se stai troppo male.


Queste persone – i volontari, i cooperanti – cercano di appagare un loro intimo bisogno? Vogliono “sentirsi buoni”? Penso di sì, e non ci vedo niente di male in questo. Preferisco chi cerca di sentirsi meglio aiutando gli altri che derubandoli o umiliandoli. Andare in Africa per la gran parte dei volontari è una gioia, mi pare. Non una condanna. C’è qualcosa di male in tutto questo? Macché. Piuttosto, quanti fra quelli che adesso condannano quella ragazza sui social sono andati in qualche paese esotico a fare turismo sessuale o a strafarsi di qualche sostanza stupefacente? Senza contare che lei è una donna, una femmina! Cosa mai sarà andata a cercare, laggiù? “Che la piasa, che la tasa, che la staga a casa”, dicono dalle mie parti. “Che piaccia, che stia zitta, che stia a casa”. Non è ancora così? Non dicono così i benpensanti?
Si dice che i volontari sono degli incoscienti. Ma se c’è incoscienza in un volontario in Africa, ce n’è anche di più in chi rischia la pelle per scalare una montagna, buttarsi giù da una cima con un parapendio, o per un sorpasso azzardato in macchina (di quelli che subisco tutti i giorni dai miei esagitati concittadini andando su e giù dalla valle). Può darsi ci sia un po’ di improvvisazione, nell’agire delle associazioni. Spesso non hanno grandi mezzi, non sono un esercito, non sono neanche la protezione civile. I cooperanti di solito non hanno guardie del corpo, elicotteri, molti soldi. Operano in luoghi rischiosi, spesso senza ricevere niente in cambio, neanche uno stipendio decente (che pure meriterebbero perché la cooperazione è – anche – un lavoro, un lavoro di responsabilità). Non ostentano nemmeno il loro operato, finiscono sui giornali solo se li rapiscono, mai se un loro progetto va a buon fine, se in un villaggio africano si avvia una scuola, si risana un ospedale, una cooperativa inizia a produrre e a dare lavoro a delle persone (persone che magari, così, non dovranno emigrare). Danno tanto fastidio? Ma così tanto?

Un tempo c’era anche un altro modo per chiamare questa solidarietà senza confini: internazionalismo. Stava a significare che per i poveri i confini non esistevano, che quei confini erano un’impostura dei ricchi e dei potenti. Queste idee oggi sono sorpassate, o hanno fatto in modo che lo diventassero, non so. Ma per fortuna c’è chi ancora pensa che impegnarsi per un mondo migliore, a casa propria o a migliaia di chilometri di distanza, non sia sbagliato, sia giusto. E sia tutto parte della stessa battaglia.