Sono trascorsi 62 anni da quando, in una calda mattina d’agosto, persero la vita 262 lavoratori nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, in Belgio. Una tragedia per certi versi evitabile: fu un carrello usato per trasportare il carbone a provocare l’esplosione, a causa di un equivoco tra chi scavava in profondità e chi lavorava in superficie. A mille metri di profondità, l’impatto dell’incendio fu devastante. 136 persone che da quel giorno non videro mai più la luce del sole erano italiani.
Italiani giunti in Belgio a lavorare in miniera, a seguito di un protocollo che il Governo di Roma e quello di Bruxelles poco dopo la fine della guerra firmarono per assicurare, tra le altre cose, il trasferimento di lavoratori nel Paese mitteleuropeo, stabilendone le condizioni di lavoro. In Belgio mancava manovalanza per le miniere di carbone, e l’Italia era in cerca di fondi e carbone stesso. Il Protocollo fu il risultato dell’incontro tra le due esigenze: forza lavoro dal Paese del Sud Europa, in cambio di materia prima. Originariamente 50mila unità lavorative, divenute poi, di fatto, 63.800, con un invio di 2000 persone alla settimana al di sotto dei 35 anni. Tutte condizioni che solo il disastro di Marcinelle riuscì a mettere in discussione.
62 anni dopo, questa ricorrenza, così toccante e significativa per noi italiani, è di nuovo macchiata di sangue. Sangue di altri lavoratori, sfruttati come schiavi, nelle campagne d’Italia dove si produce la crème de la crème del made in Italy, quello che poi finirà commercializzato in tutto il mondo a dare lustro alla produzione del Belpaese. I due incidenti di sabato e lunedì nel Foggiano hanno mietuto 16 vittime: 62 anni prima un carrello usato per trasportare carbone, senza alcun sistema di prevenzione; nel 2018 un incidente letale che ha coinvolto il furgone sul quale erano ammassati i lavoratori, dopo una stancante e sottopagata giornata di raccolta di pomodori.
Il caporalato è un business, rigorosamente di irregolari, che cattura nelle sue maglie stranieri e italiani. Arriva a sfiorare il valore di 5 miliardi di euro all’anno, circa un quinto del valore aggiunto dell’intera filiera agricola. Il termine deriva dalle figure dei “caporali”, che procurano manodopera a bassissimo costo – vero e proprio sfruttamento – e la impiegano in campi o cantieri, incassando un compenso. Secondo i dati di Flai Cgil, i lavoratori agricoli esposti al rischio di un reclutamento illecito sono tra le 400 e le 430mila unità, pagati, nei casi più estremi, dai 20 ai 30 euro per una giornata di 8-12 ore di lavoro. Un salario stimato il 50% in meno rispetto a quello previsto dal contratto nazionale per gli operai agricoli.
Una problematica, quella del caporalato, che si intreccia con la piaga delle agromafie, che sempre più contamina le nostre imprese agricole e condiziona pesantemente la filiera di produzione locale e nazionale, approfittando dei vuoti legislativi e dell’impegno altalenante delle istituzioni. Secondo Marco Omizzolo, sociologo e responsabile scientifico della Cooperativa In Migrazione, nonché grande esperto della materia, parte della responsabilità è imputabile alla “forte retorica, che poi si traduce in prassi e in ostacoli legislativi, messa in campo in particolare dalla Lega e sostenuta da questo Governo, che va nella direzione contraria rispetto al riconoscimento dei diritti a tutti coloro che entrano nel mercato del lavoro, e a chi arriva o risiede nel nostro Paese, a prescindere dalla loro origine”. Un modus operandi le cui conseguenze si riverberano nei territori dove questi sistemi di sfruttamento sono più organizzati, dando origine “a forme di giustificazione e di giustificazionismo di questo fenomeno da parte delle istituzioni locali e della collettività”.
Altro errore fatale della politica, secondo Omizzolo, il “considerare il fenomeno come marginale, periferico rispetto alla legalità formale, persino necessario e circoscritto ai soli territori del Meridione, quando in realtà si diffonde anche al Centro Nord, e in maniera sempre più organizzata”. Non solo: non si tratta di un fenomeno solamente “mafioso”; “è invece sistemico, che caratterizza gran parte della produzione agricola”. Ecco perché è necessario che le istituzioni lavorino per “organizzare un sistema che sia contemporaneamente preventivo e repressivo”.
In realtà, qualcosa è stato fatto in questo senso: nel 2016, è stata approvata una legge ad hoc, la 199/2016, pensata proprio per contrastare i fenomeni di lavoro nero, sfruttamento in agricoltura e per promuovere un riallineamento retributivo nel settore agricolo. “Un’ottima legge”, secondo Omizzolo, nata a seguito dello sciopero dei braccianti indiani organizzato proprio dalla cooperativa In Migrazione, dalla Flai Cgil e dalla comunità indiana nel Lazio. Un risultato importante, a detta di chi ha lavorato alacremente per raggiungerlo: “Siamo riusciti a portare 4000 braccianti a Latina, sotto la Prefettura, e quello sciopero, insieme alla morte drammatica di Paola Clemente, ha portato alla promulgazione della legge”.
Eppure, le nuove morti di questi giorni – che hanno riportato la questione sotto i riflettori – fanno pensare che qualcosa, ancora, non stia funzionando come dovrebbe. “Purtroppo non è una legge che risolve il problema, sia pure ottima. La 199 deve essere applicata molto meglio, devono essere forniti strumenti materiali e analitici più acuti e aggiornati a Forze dell’Ordine e Magistratura, i tempi dei processi devono essere più celeri, si devono assicurare maggiori garanzie al bracciante che, durante la fase della denuncia, è particolarmente fragile”. Omizzolo pensa, ad esempio, al “riconoscimento di permessi di soggiorno per motivi di giustizia di lungo periodo, e percorsi di avviamento al lavoro e al recupero psicosociale, cosa che ancora, in questo Paese, non è prevista”. La legge del 2016, insomma, è soltanto il primo di una serie di passi fondamentali e necessari per conseguire l’obiettivo del contrasto di agromafie e sfruttamento.
“Certo”, aggiunge il sociologo, “l’uso dei voucher in agricoltura non aiuta”. Secondo l’Osservatorio Placito Rizzotto, in effetti, le dimensioni del fenomeno sono spaventose: 400-430mila persone vivono in situazioni di sfruttamento lavorativo solo in agricoltura ogni anno, di queste 130mila in condizioni paraschiavistiche, per un business che, per l’Eurispes, ammonta a circa 26 miliardi di euro. “Combattere le agromafie significa anche recuperare risorse pubbliche, contrastare la competizione sleale tra le imprese, perché l’impresa che sfrutta condanna anche quella che sta nella legalità”.
In effetti, la filiera e la grande distribuzione giocano un ruolo importante nel cancro che affligge il sistema. “Noi proponiamo da tempo una riforma della grande distribuzione organizzata radicale, nel segno della trasparenza della filiera, che sia più corta, e superando tutta una serie di privilegi e domini che costituiscono un grave ostacolo e che producono poi lo sfruttamento nei campi”. È un discorso importante e complesso: del resto, lo stesso Eurispes ha più volte sottolineato come la scarsa opacità della grande distribuzione nel nostro Paese finisca addirittura per non valorizzi i prodotti migliori del made in Italy. Ciò che non funziona della filiera, che una celebre e coraggiosa campagna definisce giustamente “sporca”, infatti, è dato da quella lunga lista di intermediari che accumulano ricchezza impoverendo i produttori, acquisendo i loro terreni, determinando il prezzo e sfruttando il lavoro attraverso i caporali. Insieme a questo, aggiunge Omizzolo, “penso si debbano riformare anche i grandi mercati ortofrutticoli, troppo spesso ricettacolo di interessi economici e politici anche mafiosi”.
E poi c’è un ulteriore intreccio, quello tra mala accoglienza dei migranti e sfruttamento nelle campagne: “È un fenomeno che sta emergendo. A Latina è particolarmente evidente, con richiedenti asilo impiegati nelle campagne a 10-15 euro l’ora per 14-15 ore al giorno nella raccolta di cocomeri, reclutati con la complicità, in alcuni casi, degli stessi centri di prima accoglienza, che guardano da un’altra parte”.
L’antidoto? “Investire nella buona accoglienza. Con programmi di inclusione reali, un controllo orizzontale sui migranti, progetti sociali all’avanguardia, un sostegno reale e fattivo ai centri più virtuosi”. Ma per farlo, serve un’inversione di rotta innanzitutto politica: “Non si può continuare a criminalizzare l’immigrazione e l’accoglienza tout court“. Perché, così facendo, anziché colpire le mele marce, “si finisce per fare gli interessi degli sfruttatori”.