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Che fine ha fatto il terrorismo islamista dell’Isis? C’è, ma non si vede…

Continua a far morti, ma sui giornali e nelle televisioni se ne parla e se ne scrive sempre meno. Fa più "notizia" un incidente d'automobile...

Valter VecelliobyValter Vecellio
Che fine ha fatto il terrorismo islamista dell’Isis? C’è, ma non si vede…

Foreign Fighters dell'Isis di nazionalità britannica al confine tra Iraq e Siria nel 2017

Time: 3 mins read

Tocchiamo ferro e tutti gli amuleti disponibili, recitiamo tutti gli scongiuri a nostra conoscenza. Dopo questi “esercizi” che “non ci credo, ma non si sa mai”, la domanda: ma che fine hanno fatto la vecchia al-Qaeda e il più recente Isis o Daesh che dir si voglia? Certo in tante parti del mondo, almeno una volta la settimana, c’è una strage, un attentato di kamikaze si fa esplodere e causa morte in luoghi-simbolo: un luogo religioso, un mercato, una caserma… Ma sui giornali e nelle televisioni se ne parla e se ne scrive sempre meno. Fa più “notizia” un uragano, un incidente d’automobile…

Ma ricordate i raffinati filmati girati da professionisti e ad arte diffusi, con macabre esecuzioni di “infedeli” ed “apostati”? E vi ricordate del povero John Cantlie, il giornalista ostaggio occidentale,sequestrato dai jihadisti del cosiddetto Califfato, a lungo utilizzato come un’arma della propaganda jihadista, costretto a farsi portavoce della “verità” dell’Isis. Da tempo di lui non si sa più nulla. Comparso per la prima volta in video nel 2014, poco dopo una serie di video in cui l’Isis mostra al mondo la decapitazione di tre ostaggi occidentali (James Foley, Steven Sotloff e David Haines), il giornalista e fotoreporter britannico riappare dopo essere stato sequestrato a novembre 2012, dopo il suo ingresso in Siria. Pare sia morto, magari sotto le bombe della Coalizione anti-Isis. Di certo, da tempo, di lui non si sa più nulla. Di certo, con silenziosa azione di “liquidazione” le agenzie antiterrorismo occidentali hanno combattuto (e probabilmente ancora combattono) una “guerra” poco appariscente, silenziosa ma di una indubbia efficacia, e liquidano uno a uno i terroristi, le loro “menti”, i loro manovali.

Si tratta di azioni di contrasto e di smantellamento delle reti del terrore importanti; e di azioni condotte sul filo del rasoio, e richiedono perizia, pazienza, audacia, discrezione. Un lavoro fondamentale, ma non sufficiente. Occorre acquisire la consapevolezza che dietro ogni kamikaze ci sono migliaia di giovani che l’industria della predicazione estremista cerca senza sosta di indottrinare e arruolare in ogni parte del mondo. Forse oggi questa predicazione ha meno fascino, ammalia in misura minore. Ma di “cattivi maestri” e di “pessimi alunni” ce ne sono ancora tanti, in circolazione.

Ecco, questa incontestabile e semplice osservazione, va al di là della questione se i tanti attentati sono frutto e risultato di cosiddetti “lupi solitari” o il risultato di network di terroristi come le filiere franco-belga. Perché al di là e al di sopra dei singoli autori, c’è appunto “L’industria della predicazione estremista” che indottrina e arruola. Questo è il problema; l’autore della strage è il sintomo. E’ però la malattia che ci deve inquietare e va compresa, inquadrata, analizzata. Il fatto che il terrorismo sempre più è strumento di lotta, perseguimento e tutela di interessi molto concreti e molto poco fanatici: di stati e di potentati che vanno al di là dei confini e delle frontiere.

Von Clausewitz, nel suo celebre trattato “Della guerra”, ci ricorda che i conflitti non sono che “la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.

Definizione che può benissimo attualizzare: “Il terrorismo non è che la continuazione della politica (e il perseguimento di interessi) con altri mezzi”, e si seguito il resto.     

Non si deve smarrire la memoria del fatto che il terrorismo colpisce a Londra come a Orlando in (Florida), a Berlino come a Dacca, in Bangladesh… E’ naturale che il massacro di bambini della Manchester Arena provochi choc; ma occorre essere consapevoli che drammi simili sono realtà quasi quotidiana per tanti popoli nemmeno tanto lontani da noi. Nella sola Siria, racconta l’Unicef, l’anno scorso sono stati uccisi almeno 652 bambini e altri 850 sono stati impiegati nei combattimenti. In Afghanistan, secondo le Nazioni Unite, ogni settimana 53 bambini vengono uccisi o feriti. In Iraq, nel 2016, su oltre 16.300 vittime civili, oltre 800 (più del 12 per cento) erano bambini, come testimonia Iraq Body Count. È la strage degli innocenti su scala industriale, in una quasi generale mancanza di reazioni emotive che diventa assuefazione.

L’abitudine all’orrore e al terrore: è questo che si deve scongiurare.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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