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Riflessioni sparse da Ellis Island di un italiano (ed europeo) sull’immigrazione

Non si può visitare Ellis Island, questo luogo così carico di memorie, e di suggestioni, senza chiedersi: cosa si dovrebbe fare, oggi, in Europa?

Marco PontonibyMarco Pontoni
Riflessioni sparse da Ellis Island di un italiano (ed europeo) sull’immigrazione

Volti di migranti a Ellis Island.

Time: 7 mins read

Sono stato ad Ellis Island, l’isolotto di fronte a Manhattan che per milioni di emigranti europei divenne la porta d’accesso per l’America, dal 1892 al 1954. Di solito si visita questo luogo dopo essere stati a Liberty Island, e avere visto da vicino la Statua della Libertà. Prima il sogno della libertà, poi l’impatto con le “regole di ingaggio”, la selezione. In Italia circolano false credenze su Ellis Island. Ad esempio, molti pensano che tutti i nuovi venuti venissero messi in quarantena. Non è così, la maggior parte di loro superava i vari controlli; dopo poche ore poteva lasciare l’isola, e sbarcare sul suolo americano. Ad essere trattenuti erano i malati (quelli che non venivano respinti subito), e altre categorie di persone di cui non si incoraggiava l’ingresso in America, come le donne sole e/o con bambini (in genere restavano in attesa di qualcuno che venisse a prenderle e garantisse per loro, un familiare, o un futuro marito). Comunque,  le maglie erano abbastanza larghe, solo il 2% di chi arrivava veniva rimandato indietro. Dopo la Prima guerra mondiale, però, le regole si inasprirono e vennero anche introdotte delle quote per ciascun paese.

Non si può visitare Ellis Island, questo luogo così carico di memorie, e di suggestioni, senza chiedersi: cosa si dovrebbe fare, oggi, in Europa? Forse è inutile cercare soluzioni definitive, meno che mai soluzioni “finali” (che suona un po’ sinistro). Se vogliamo restare umani, noi italiani, e noi europei, dovremmo innanzitutto continuare a fare quello che abbiamo fatto in questi ultimi 25 anni: accogliere chi emigra. Dovremmo continuare ad aprire i nostri porti, e non chiuderli come vorrebbe il nostro ministro degli Interni. E già che ci siamo, dovremmo aprire anche gli aeroporti.

Dovremmo però forse farlo “meglio”, far entrare gli immigrati più ordinatamente, perché questo si vede a Ellis Island, una “macchina” non perfetta, magari anche spietata (la selezione che iniziava fin sulle scale, le persone “a rischio”, perché tossivano, o sembravano agitate, segnate con una X sul vestito, fatta con un gessetto), e tuttavia efficiente, razionale.

Dire questo in Italia è impopolare, perché oggi è l’irrazionalità a pagare. La voglia di mostrare i muscoli, per spaventare l’Europa o gli stessi immigrati. Dire che bisogna continuare ad accogliere gli immigrati non fa vincere le elezioni, infatti ho premesso “se vogliamo restare umani”, non “se si vuole vincere le prossime elezioni” o “se si vuole risolvere il problema dei migranti una volta per tutte”. Ma ci sono risposte migliori, sul versante –  non economico, non giuridico – umano?

Il grande salone dove gli immigrati negli USA venivano registrati, a Ellis Island.

Un giorno anche queste migrazioni finiranno. Quelle dall’Italia sono durate circa 100 anni, dalla seconda metà dell’800 fino agli anni 60 del 900 (comprese le migrazioni interne, dal Sud al Nord dell’Italia, comprese quelle che hanno riempito le città del Nord di “terroni”, che erano vittima di pregiudizi non molto diversi rispetto a quelli che oggi riserviamo agli stranieri dall’Africa o dall’Asia, me lo ricordo, si diceva che usassero le vasche da bagno delle case popolari che avevano loro assegnato per farci l’orto).

Un giorno queste migrazioni finiranno o cambieranno. Stanno già cambiando, considerato che è ripresa una migrazione – di giovani – dall’Italia verso l’estero, e questa volta spesso sono giovani istruiti, giovani formati nelle nostre università, a cui non riusciamo ad offrire stipendi o condizioni di lavoro interessanti.

Nel frattempo però si può fare qualcosa per migliorare la situazione.

Noi non abbiamo Ellis Island, naturalmente. Però, possiamo chiedere di cambiare le regole di Dublino, che caricano di una responsabilità molto pesante il primo paese in cui i migranti approdano. Possiamo chiedere che venga rispettato un meccanismo di redistribuzione dei migranti basato su quote, anche se non è certo che sia quello che vogliono gli stessi migranti. Possiamo fare tutto questo, consapevoli però che non siamo il paese europeo che accoglie più migranti di tutti: ad esempio l’odiata Germania della Merkel ne accoglie più di noi, e così l’Austria, e perfino Malta (in proporzione al numero di abitanti).

Poi possiamo provare a cambiare le modalità delle migrazioni: concedere quote di visti, organizzare i trasporti, l’accoglienza, insomma offrire delle alternative a chi vuole espatriare e non costringerlo a farlo in maniera clandestina. Se ci pensate, è ridicolo – se non tragico – che nell’era dei low cost, persone già poverissime debbano indebitarsi per migliaia di dollari con i passatori per attraversare deserti e oceani. Significa alimentare l’illegalità, anziché combatterla come tutti a parole dicono di voler fare. Nessun immigrato si metterebbe nelle mani di uno scafista se potesse prendere un aereo e venire in Europa (alcuni profughi oggi in realtà arrivano in Italia grazie ai cosiddetti “corridoi umanitari”; ma sono una goccia nel mare).

Ed ancora: possiamo identificare in maniera più rigorosa chi arriva, anche questo è fondamentale, pur sapendo che persino a Ellis Island l’identificazione avveniva un po’ “così”, spesso venivano dati nomi e cognomi falsi, spesso i cognomi venivano scambiati con il nome del paese da cui l’emigrato proveniva (perciò don Vito CORLEONE), spesso gli italiani si passavano da una tasca all’altra le poche lire che dovevano dimostrare di possedere per far fronte alle prime spese, spesso si improvvisavano matrimoni e nuove parentele, ovviamente fatta una regola si trova sempre il modo di ammorbidirla se non di aggirarla.

Possiamo anche perseguire chi delinque, certo, perché è giusto ed inoltre perché i pochi che delinquono rovinano la reputazione dei molti che non lo fanno, e per chi non ha di suo quasi nulla la reputazione è importante (ma è evidente che è più facile violare le regole dove le regole sono già violate, è più facile lavorare in nero dove il lavoro nero e l’evasione fiscale esistono da sempre, è più facile entrare nel circuito delle droghe in un paese dove famiglie e organizzazioni potentissime – famiglie e organizzazioni italiane, autoctone – già gestiscono il traffico della droga).

Tutte le altre risposte a me al momento sembrano o ipocrite (l’“aiutiamoli a casa loro” di Renzi, e per quanto la cooperazione allo sviluppo sia di per sé un’attività lodevole) o barbare (lasciamoli nei lager libici, lasciamoli in mare, spariamo ai gommoni). Ma tutto questo vale ovviamente solo se vogliamo rimanere esseri umani civili e responsabili, esseri umani “buoni”, che non è una parolaccia, come l’hanno fatta diventare quelli che si scagliano contro i “buonisti”: la bontà, la giustizia, non sono parolacce, “cosa buona e giusta” lo si recita a messa tutte le domeniche. Non bisogna vergognarsi di non essere crudeli. Non bisogna pensare che l’umana pietà sia debolezza, che la solidarietà sia un disvalore. Parliamo spesso di identità europea, ecco qui una occasione magnifica per ribadire quale potrebbe essere: l’Europa terra di libertà e di opportunità.

Intendiamoci: il diritto alla libertà di circolazione delle persone non c’è mai stato, mai. Sempre ci sono state frontiere, e visti, e muri, e regole da rispettare. A volte erano regole accettabili. A volte la chiusura era solo violenza. In Europa fino alla caduta del Muro di Berlino un sacco di gente “oltrecortina” non poteva muoversi dal suo paese, (forse per questo in molti paesi dell’Europa dell’Est non vi è una gran cultura solidaristica e gli Orban hanno così tanto credito).  Così come a tutt’oggi, non credo sia facile per un cittadino della Corea del Nord ottenere un visto per l’espatrio.

Tuttavia, per la gran parte dell’umanità, oggi c’è un fatto nuovo: si chiama globalizzazione. Tutto viaggia e tutto si sposta: merci, capitali, turisti, forze lavoro. Cervelli, informazioni, bites. Si può avere tutto questo, e negare il diritto di migrare a persone che lasciano la propria casa per cercare altrove migliori condizioni di vita? E importa poco alla fine se la loro casa sia o no in fiamme, anche la distinzione fra rifugiati “giusti” e immigrati “irregolari” (che pure trova un suo fondamento nel diritto) lascia un po’ il tempo che trova.

Il diritto a spostarsi, a viaggiare, deve essere considerato un nuovo diritto umano. Per la verità la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU già lo sancisce, all’art. 13: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato» e ha «il diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese» (l’art. 14 invece parla del diritto di asilo). Ma è di gran lunga uno dei diritti meno applicati al mondo. Specie con riguardo ai poveri, perché se si è ricchi un modo per superare le frontiere lo si trova (andate a rileggervi quel passaggio dell’Addio alle armi di Hemingway, quando il “disertore”, arriva in Svizzera con una barchetta: è sufficiente che mostri i dollari e il gioco è fatto).

Cosa possiamo dire, dunque, o cosa possiamo fare, in Europa? Possiamo dire che applichiamo il diritto alla libertà di movimento. E cercare di farlo meglio che possiamo. Possiamo andare fieri di questo. Come in passato è stata fiera l’America – non tutta, certo – di accogliere milioni di emigrati dall’Europa, poveri o perseguitati (di solito poveri gli italiani, di solito perseguitati, ad esempio, gli ebrei, anche allora i bisogni si mescolavano, c’era chi scappava dai pogrom e chi inseguiva un futuro diverso rispetto a quello – prevedibile – offerto dal proprio microcosmo sperduto nella Lucania o nelle alpi trentine).

Tutto questo finché le migrazioni non finiranno, come sono finite quelle degli italiani, salvo a ricominciare in maniera nuova.  O forse finirà prima la globalizzazione, come vogliono oggi le nuove destre (visto che 20 anni fa i no global di sinistra sono stati sprangati senza pietà nell’indifferenza delle sinistre ufficiali). Forse finirà la globalizzazione, come vuole Trump, come vuole Salvini, come ha voluto Farage. Allora torneranno i dazi, torneranno le monete nazionali, torneranno i nazionalismi duri e puri. E con loro i fili spinati e le cortine di ferro. Sparare a chi emigra senza averne diritto sarà considerato normale. Anche questa può essere una soluzione. Ma dobbiamo chiederci: è quella buona? Ed è quella giusta?

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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