Diceva Gigi Proietti in un monologo cult di Youtube:
«Ho forato ‘a rota davanti ar manicomio, le viti so’ cadute nel tombino. Un matto me guardava, m’ha detto: ‘Togli un bullone alle altre e con tre per ruota raggiungi il meccanico’». Proietti lo guarda incredulo: «Ma allora perché te tengono chiuso là dentro?», al che il pazzo risponde: «Ma io so’ matto, mica stronzo»!
Secondo i dati pubblicati sul quotidiano Libero in data otto maggio, tratti dall’ultimo rapporto sulla salute mentale del ministero, ben sedici milioni di italiani soffrono di disturbi mentali lievi e meno lievi, quasi un quarto della popolazione complessiva. Francia e Germania, prosegue l’analisi, investono quattro volte tanto l’Italia. Ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’OMS, riferisce che entro il 2020 la depressione sarà la seconda causa di disabilità lavorativa dopo i disturbi cardiovascolari. Il cane nero, come la chiamava Winston Churchill. Numeri da emergenza: un’emergenza lunga decenni. E un tabù difficile da infrangere.

Il tredici maggio di quarant’anni fa infatti veniva introdotta la legge Basaglia, la 180 di riforma psichiatrica, che prevedeva la chiusura dei manicomi e, nelle speranze del neurologo che le diede il nome, la rivoluzione della psichiatria in Italia. Ottantasei manicomi-ghetto chiusero i battenti, finalmente smantellati. Centomila persone tornarono, anzi, divennero persone, umani e non più subumani. Riacquistarono i diritti politici e civili, persi dopo trenta giorni di internamento. Giovanna Del Giudice, allieva di Basaglia, chiama i medici di allora carcerieri, i pazienti vittime inermi. Caddero i muri tra noi e loro, tra folli e normali. Si gridò al miracolo, e a ragione: eravamo l’unico paese ad abolire quei lager, si diceva, eravamo pionieri, si faceva la storia. Franco Basaglia agì con onestà, in buonissima fede, ma chi lo succedette fallì.
Io sono nata a quattordici anni dal tramonto dei manicomi e sono nata matta, bipolare, schizoide e diverse altre cosucce. I miei genitori forse non mi avrebbero mai rinchiusa in quei reparti fetidi, ma in alcuni momenti della mia vita, i più neri, ho maledetto Basaglia. Che futuro c’era per noi pazzi, dal ‘78 costretti al limbo?
La psichiatria in Italia, oggi, è ancora carente. I centri di salute mentale funzionano, ma non sono sufficienti. Gli psichiatri che vi operano, mai abbastanza, sono sfiniti per i turni massacranti; i pazienti troppi, problematici e ingestibili. I tempi di attesa per un colloquio gratuito spesso di appena dieci minuti sono di settimane, quando non di mesi. Che alternativa c’è quindi al modello manicomiale, per quanto inumano? Basaglia morì poco dopo la legge lasciando un vuoto incolmabile. Il trattamento sanitario obbligatorio, più noto come T.S.O., ovvero il ricovero coatto, viene ordinato di raro. Mauro Guerra ne è morto. I bipolari, difficile dirlo perché le diagnosi arrivano tardi e spesso incomplete, pare siano un milione. Il pronto soccorso non ci ama. Intralciamo le vere emergenze con la nostra ansia, non siamo curabili in tempi brevi, non basta una fasciatura o un’iniezione. Veniamo spesso e volentieri ricacciati indietro in malo modo: a me è successo infinite volte. Adesso ci sorrido, comincio a star meglio, ma negli anni dell’ipocondria quelle corse matte e disperatissime in corsia erano all’ordine del giorno e finivano in tragedia. Lei è isterica, se ne vada! mi urlò il medico di guardia un sabato pomeriggio. Vomitavo da giorni, la mia psiche rifiutava il cibo. Ricordo che rincasai frastornata, appena in tempo per correre in bagno, mentre la Ternana giocava. Perché non mi capiva nessuno?
Il delicatissimo tema malattia mentale affascina i registi, da Fellini (Voglio una donna! urlava lo zio di Titta Benzi dall’albero in Amarcord, Valeska Gert gemeva in Giulietta degli spiriti) a Von Trier, e anche in Italia negli ultimi vent’anni è stata affrontata con coraggio sul grande schermo, da Virzì nella Pazza gioia, da Pupi Avati nel Papà di Giovanna e da Francesca Archibugi nel Grande cocomero. I pazzi nella letteratura non si contano, l’incendiaria Merry Levov di Philip Roth è la mia preferita, così come nella musica, dove genio fa sempre coppia con sregolatezza e a Keith Moon e a Vincent Crane veniva perdonato tutto. Insomma, la follia piace, conquista, ma non nella vita quotidiana, dove invalida e basta.
Anche la lingua italiana ci è contro: bipolare è il tempo di Milano, il piede di una mezzala dal rendimento altalenante, un aggettivo abusato e usato male. Chi direbbe che Renzi è down o autistico? Cadrebbe anche il cielo, l’indignazione infrangerebbe ogni record. Ma scrivere che un premier è bipolare o schizofrenico è divertente, un bon mot da twitstar. Ricordo i pianti che facevo leggendo i pazzi ridicolizzati sul web. Elliot Rodger, il serial killer più odiato di sempre dopo Charles Manson, si armò di un’arma militare e sparò alla cieca per vendicarsi. Di cosa? Era vergine e credeva che il mondo e le donne ce l’avessero con lui. Non ho mai trovato un articolo che spiegasse cos’era passato per la sua mente. Solo odio, rabbia, rancore. Ma Elliot, per quanto imperdonabile, è stato la prima vittima della sua furia omicida.

I matti sono invisibili, diversamente inabili, come li chiamo io. Diversi anche dai diversi. Ridono e scherzano e cantano e piangono sepolti negli ambulatori, imbarazzano famiglie e infrangono matrimoni, quelli dei genitori. Amici e parenti non capiscono, rimangono perplessi di fronte alle nostre stranezze. In un villaggio vacanze, a diciassette anni, uscii dalla stanza con un vestito che a me pareva carino, addirittura simpatico. Un animatore mi disse imbarazzato che era trasparente, che si vedeva tutto, proprio tutto. Non riuscivo a cogliere la sfumatura tra eleganza e volgarità. Ancora oggi, come i daltonici, mi sforzo di vedere ciò che non vedo invano. Non ho futuro, perché alterno mania e depressione. Soltanto un mese fa quest’articolo non sarebbe stato possibile. Il mio boss, Stefano, ricorda bene il vuoto delle mie giornate, l’assenza di ispirazione, di voglia, di tutto. Certo, i farmaci placano, ma il prezzo da pagare è altissimo. L’interruttore si spegne, le giornate passano senza lasciare traccia. Vegetali. Subumani, ancora una volta. Io li ho sospesi, ma la mania è forse peggio del buio. Ho fatto una mossa incauta e ci ricadrò.
Risposte non ne ho, sono matta e forse pure stronza. Ho un blog su facebook nato da pochissimo, Vherapy, dove mi metto a nudo – a volte integrale, ma no, scherzo, ma sì, non scherzo, anche con il rispetto per l’autorità – e mostro la mania così com’è: imprevedibile, divertente, irritante. Nei miei sogni Vherapy sarà luogo di incontro e di scambio per noi malati di mente, abbandonati a noi stessi e troppo spesso fraintesi. La malattia mentale non è curabile, non guariremo mai. Ma qualcosa è possibile. È possibile mangiare sano perché siamo quel che mangiamo, come cantava Peter Gabriel. È possibile distrarsi con video sciocchi, i più ridicoli, senza vergogna, per non dover ricorrere ai sonniferi. I bagni caldi, le lunghe passeggiate, l’abbraccio di un amico. Molte piccole cose aiutano.
Io ho acquistato sedici kg in quattro mesi per via degli antipsicotici, perdendo la mia figurina snella. Avevo il pancione gonfio, il volto livido. Il litio mi ha quasi uccisa intossicandomi, un farmaco sicurissimo ed efficace che non sapevo di non tollerare. Fino a poche settimane fa gli attacchi di panico mi impedivano perfino di uscire di casa. Mi fermavo sulla soglia, poi facevo dietrofront e chiudevo la porta. L’esibizionismo, altro aspetto spinoso, mi ha quasi portata alla rovina. Ho meditato il suicidio più volte. Nel giorno della diagnosi di disturbo bipolare, il quattro febbraio di quattro anni fa, avrei dovuto sostenere un esame, sociologia, un orale. Mi vestii, preparai lo zaino, salii in macchina e iniziai a singhiozzare sul sedile posteriore. Ero un fantasma, ero morta e non lo sapevo. Mia madre girò l’auto e mi portò in reparto. Non mi sarei più laureata. Non sono un’eroina, ma mentirei se dicessi che ho avuto negli anni il sostegno morale che si dà agli altri malati.
Giorgia Libero, la studentessa ventenne sconfitta dal cancro appena due anni fa, godeva della stima incondizionata dei veneti, che ne seguivano le gesta sui social network e sui giornali locali. In quello stesso periodo il mio blog sulla malattia mentale riceveva un paio di like quando andava bene, spesso nessun retweet. Perché, mi chiedevo, Giorgia ha amici e io no? Perché io sono sola e lei riempita di attenzioni? Quanti perché, tanti da riempire interi fogli di Word. Non la odiavo, eravamo coetanee, padovane, ma la disparità di trattamento era evidente e dolorosissima. Sapevo però cosa mi differenziava da lei, cosa mi rendeva impopolare: Giorgia era forte, come forti sono Bebe Vio e Alex Zanardi, simboli universali di una diversità accettabile: io non lo ero. Ero piagnucolosa, schiva, asociale. Ma che potevo farci? Sono nata così, è scritto nei miei geni. Anche i matti hanno bisogno d’amore, e pazienza se non son belli e buoni e bravi. È ora di agire, basta se o ma, condizionali, si farà e si vedrà. Parafrasando Tommy Walker, il guru sordo, cieco e muto di Roger Daltrey, see us, feel us. E touch us, heal us.
Franco Basaglia ha ridato la dignità al malato di mente. Ora l’Italia prosegua e completi l’opera iniziata quarant’anni fa sulla scia di Chirlane McCray, moglie del sindaco italoamericano di New York e attivista per i diritti dei pazzi. Che se ne parli, che se ne discuta. Il tempo è giunto. E gli italiani, ognuno di voi, ci abbraccino virtualmente e non ci lascino mai da parte. Perché un matto è matto sempre, ma quando è solo non ha più punti di riferimento. Il mondo vortica, qualcuno lo fermi, qualcuno ci fermi.
Due mesi fa, in piena fase maniacale, ho insultato pesantemente la fidanzata del mio migliore amico, che non mi ha mai perdonata. Un gesto sciocco, impulsivo, da me. Marco non tornerà, lei non vorrà più saperne di me, ma questo articolo è per loro e per Alvise, che non c’è più.