Basta farmaci, basta alla violenza del sapere psichiatrico: la follia non è una patologia e il malato di mente va salvaguardato e reinserito nel contesto sociale. A guidare la battaglia per la chiusura dei manicomi in Italia è Franco Basaglia, lo psichiatra che ha dato il nome (e anche i natali) a quella legge, la 180, che nel 1978 ne sancì la chiusura definitiva. Siamo nei primi Anni 60, i matti fanno paura e la loro presunta pericolosità giustifica cure spesso ai limiti del tollerabile. Complici le Istituzioni politiche e un approccio terapeutico probabilmente non all’altezza di gestire la situazione, i manicomi sono diventati luoghi di esclusione e alienazione per chi vi è ricoverato e che proprio qui viene confinato, per paura che possa mescolarsi alla gente comune. Personaggio controverso nel panorama della psichiatria nazionale, Basaglia vuole provare a rispondere ai bisogni delle persone e fa scattare la sua denuncia civile contro l’ospedale psichiatrico per come era stato gestito fino ad allora. Nasce da qui un vero e proprio movimento che nel 1967 è già forte e strutturato e coinvolge al suo interno più attori sociali, tutti schierati contro la pratica di confinare le persone malate di mente in quei luoghi di ricovero chiamati manicomi.
Nella tavola rotonda Franco Basaglia and the critique of the mental asylum in Italy, organizzata dalla Casa Italiana Zerilli Marimò in occasione del novantesimo anniversario della nascita di Basaglia, si è riflettuto proprio sulla nascita e la storia di questo movimento che alla fine degli Anni 70 ha portato alla chiusura di tutti i manicomi d’Italia. Agli albori, come illustrato da John Foot dell’Università di Bristol, tra gli intervenuti, il movimento provocò un gran can can tra favorevoli e contrari, tra chi continuava a difendere quel sapere psichiatrico “contenitivo” tanto rassicurante e chi, invece, iniziava a vedere un percorso alternativo da intraprendere, democratico, riabilitativo e preventivo.
Dall’ospedale di Gorizia, durante il periodo di esilio professionale, Basaglia dette vita alla prima esperienza anti-istituzionale nella cura dei malati di mente e, con l’equipe che aveva messo in piedi, iniziò una vera e propria diaspora in tutta Italia per cambiare le Istituzioni e arrivare a una effettiva revisione ordinamentale dell’ospedale psichiatrico. Fu l’inizio di una rivoluzione: stop a qualsiasi tipo di contenzione e all’elettroshock, cancelli aperti tra i vari reparti e non più solo terapie farmacologiche, ma rapporti più umani che necessariamente dovevano coinvolgere anche il personale ospedaliero; furono introdotti non solo laboratori di teatro e di pittura, ma anche cooperative di lavoro, che coinvolgevano e remuneravamo i ricoverati. Per Basaglia, il paziente andava recuperato come uomo e messo nelle condizioni in cui vivevano le persone comuni, nella loro banale quanto preziosa quotidianità.
Inevitabile la riflessione socio-politica cui fu costretto quel sistema ideologico che fino ad allora aveva pensato di risolvere il problema della follia con l’emarginazione. E la questione non riguardava soltanto il nostro Paese, ma si era aperta anche in altri contesti europei, sempre nel tentativo di ripensare e riformare l’assistenza psichiatrica (alla tavola rotonda presente anche Camille Robcis, della Cornell University, che ha illustrato le dimensioni del movimento che prese vita in Francia e che fu un importante punto di riferimento per quello italiano). Era chiaro che chiudere il manicomio significava creare delle strutture alternative, ma altrettanto chiara era la necessità di cambiare le coscienze e riuscire a far prendere in considerazione il problema che la legge fosse da cambiare. Basaglia ci riuscì. Dalla chiusura, nel 1977, dell’ospedale psichiatrico di Trieste, la zona pilota nella ricerca sui servizi di salute mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui Basaglia ne era il Direttore, all’approvazione in Parlamento della Legge 180 poco più di un anno dopo, il passo fu breve. Mai più manicomi in Italia.
La rinnovata coscienza nei confronti delle persone affette da disturbi mentali e nel modo con cui essi venivano assistiti ha ispirato anche tanti artisti. Il dramma dei malati mentali viene fotografato e ripreso da più angolazioni per capirne le contraddizioni e tentare di dimostrare l’erroneità dei metodi educativi seguiti. Tra i lavori più significativi presentati da David Forgacs, della New York University (anch’egli tra gli intervenuti), le immagini di Raymond Depardon (sua la fotografia che apre questo articolo) e alcuni spezzoni del documentario di Marco Bellocchio “Matti da slegare”. Il paradosso (o forse la vittoria di Franco Basaglia)? Una volta “slegati” furono in tanti tra i ricoverati a non voler abbandonare il manicomio.