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Cannes 2018: la lite con Netflix, il divieto di selfie e film insoliti

La 71esima edizione del Festival di Cannes cerca di mettere a tacere i malumori dei giornalisti con film di denuncia e anti-sistema.

Monica StranierobyMonica Straniero
Cannes 2018: la lite con Netflix, il divieto di selfie e film insoliti

La giuria di Cannes 2018 (foto di Lavinia Pinzari)

Time: 3 mins read

L’attrice australiana Cate Blanchett è il presidente di giuria della 71esima edizione del Festival di Cannes. Un’edizione che che segna una svolta nella storia della kermesse più glamour del mondo per una serie di cambiamenti di protocollo decisi all’ultimo minuto, tra cui il divieto di selfie sul red carpet e lo spostamento delle anteprime stampa dopo le proiezioni di gala, e il divorzio da Netflix.

Al film di apertura spettava quindi l’arduo compito si spazzare via le polemiche e i musi lunghi tra i 40mila accreditati provenienti da 160 Paesi. Impresa che non è riuscita a “Todo lo saben”, titolo orginario di “Everybody Knows”, il nuovo film di Asghar Farhadi, regista premio Oscar per “Una separazione”.

Javier Bardem prima della conferenza stampa di Todo lo saben (foto di Lavinia Pinzari)

Laura, interpretata da Penelope Cruz, rientra dall’Argentina nel suo paese natale in Spagna con i suoi due figli per partecipare al matrimonio della sorella. L’occasione gioviale diventa per il regista il pretesto per mettere in scena un vasto numero di personaggi e luoghi, disegnando una complessa rete di connessioni tra familiari, amici e altri abitanti del villaggio. Alla fine della festa di nozze, la figlia sedicenne di Laura, Irene (Carla Campra), scompare dalla sua camera da letto. Da questo momento il film smarrisce completamente la strada e sfonda apertamente nella retorica e nel melodrammatico. La rapida successione delle scene costringe i personaggi ad una caratterizzazione sempre uguale, quasi ridondante e a tratti noiosa. Con il risultato che l’esposizione narrativa diventa sciatta e lo spettatore si trova alle prese con una serie di domande a cui la sceneggiatura avrebbe dovuto prevedere delle risposte convincenti.

L’intenzione del regista era di girare un thriller psicologico, tuttavia la suspense si riduce alla crescente paranoia tra i protagonisti; sullo sfondo la disgregazione dei legami familiari che si va compiendo nella disperata ricerca di Irene, guidata da Laura e Paco, in un microcosmo di silenzi, traumi, segreti e divisioni. Oltre questo Farhadi non riesce ad andare.

Il film che sembra aver fatto scandalo (per finta)  a Cannes è “Rafiki”, in concorso nella sezione “Un certain Regard”.  Per la prima volta nella storia dei Festival arriva un film keniota che tratta l’amore tra due donne. Il secondo lungometraggio della talentuosa cineasta africana Wanuri Kahyu è stato bandito nel suo paese perché “promuove il lesbismo” in violazione delle leggi del Kenya che puniscono il legame tra persone dello stesso sesso con la prigione fino a 14 anni. Solo per questi motivi il film merita di essere celebrato. “Rafiki” è un film ingenuo in cui la trama si dipana attraverso i cliché sull’amore adolescenziale con annessi drammi, pettegolezzi da caffè e baci rubati. In sostanza una storia schematica che guarda alla questione dell’amore gay per quello che è, ossia una chiara violazione dei diritti umani.

Altro titolo insolito inserito nella competizione ufficiale è “Yomeddine” di A. B. Shawky, una scelta che sembra voler segnare la rinascita del cinema egiziano. Beshay (Rady Gamal), un ex lebbroso, non ha mai abbandonato dall’infanzia il luogo in cui è stato rinchiuso. Dopo la scomparsa di sua moglie, raccoglie i suoi poveri averi su un carro trainato dal suo asino e parte alla ricerca delle sue radici. Ad accompagnarlo nel viaggio attraverso il deserto africano un bambino orfano che ha preso sotto la sua ala protettiva. Beshay si ritroverà ad affrontare il mondo “reale” e i suoi mali, scoprirà lo sguardo che gli altri “indossano” su di lui ma anche il conforto di una piccola umanità composta da suoi simili che la società intransigente relega ai margini.

Il regista A.B. Shawky e la produttrice Elisabeth Shawky-Arneitz (foto di Lavinia Pinzari)

Il film mostra al pubblico un Egitto inedito e lontano da quello ostentato nelle cartoline. Le Piramidi e i musei turistici scompaiono per far posto ai ghetti in cui confinare i malati di lebbra per evitare il contagio ma soprattutto per essere nascosti agli occhi altrui. Perché i lebbrosi anche se guariti portano lo stigma della malattia per tutta la loro vita.

La storia è punteggiata da toccanti incontri che muovono la trama sul crinale della deriva sentimentalista.  La forza del film è riuscire a convincere il pubblico che le apparenze non contano. Ma la semplicità del messaggio è talmente disarmante che fa di “Yomeddine” una favola sull’esclusione sociale.

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Monica Straniero

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