Nel Castello dei destini incrociati, Italo Calvino favoleggia di un mondo all’incontrario, dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre. Nelle Città Invisibili, invece, ciò che era eccentrico è diventato usuale, stranezza quello che passava per norma e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti.
Da quando è esploso lo scandalo Weinstein, che ha dato poi la stura a tutta una serie di rivelazioni, mi sembra di vivere in un’atmosfera altrettanto surreale. L’impressione è che, anziché la molestia e gli abusi di potere, il fulcro del problema sia, da una parte, lo scarso coraggio o la poca tempestività delle vittime nel denunciare e, dall’altra, la minaccia di una specie di nuovo maccartismo. Questo ribaltamento dei fatti appare come un tentativo, piuttosto maldestro, di distrarre l’attenzione da una realtà che siamo riottosi ad affrontare.
Normalmente proviamo indignazione davanti a un’ingiustizia, e sollievo quando a quell’ingiustizia viene posto rimedio. Dinanzi alla composizione di un torto ci sentiamo pacificati, non recalcitranti.
Mi attendevo solidarietà e, magari, anche un pizzico di autocritica; ho assistito, invece, a manifestazioni d’ironia e incredulità.
Il dibattito, soprattutto in Italia, si è incentrato sul perché le vittime di violenza non abbiano reagito prima, anziché sulle ragioni per cui un uomo si senta in diritto di abusare di una donna. Perfino in caso di stupro, ci si chiede se la vittima abbia risposto con sufficiente veemenza di fronte all’aggressore.
La violenza sembra la modalità di default. Non è agli uomini che si chiede rispetto, è dalle donne che si pretende coraggio. Gli abusi sono la normalità, e una mancata o tardiva reazione, la disfunzione.
La questione non è se e come una vittima debba giustificarsi. Le questioni sono l’impunità, l’assenza di un’educazione sentimentale, l’insufficiente tutela riservata a chi denuncia e la necessità di una più equa redistribuzione del potere.
Chi obietta una scarsa “assunzione di responsabilità” da parte delle donne, peraltro, non spende un momento a riflettere sul fatto che non siamo tutte uguali. Che, come avviene per gli uomini, alcune di noi sono più forti e altre più fragili. E che l’insicurezza, il timore di non essere credute, l’inesperienza, il senso di colpa (paradossalmente, c’è anche quello), e finanche la dabbenaggine, ad oggi, non sono reati. La violenza lo è.
A chi ci invita alla cautela, vorrei dire che impariamo fin da ragazzine a vivere in uno stato di costante vigilanza, perché sappiamo che gli abusi, spesso, vengono perpetrati anche in quei luoghi che dovrebbero garantire sicurezza.
Non è vero che disponiamo della libertà di dire di no. Non possiamo scegliere, in ogni circostanza, le persone con cui avere a che fare.
Se capita di avere un capo che è un despota, ci suggeriscono di cambiare lavoro. Ma l’atteggiamento del capo, quello no, non è in discussione. Irrilevante anche la constatazione che limitarsi ad allontanarsi da chi lede la nostra dignità non risolverà mai il problema. Un bullo che non viene chiamato a rispondere delle proprie azioni rivolgerà le proprie frustrazioni sul prossimo bersaglio.
Ci sentiamo dire che, in caso l’ambito di lavoro si rivelasse “tossico”, potremmo fare un altro mestiere. Però anche a noi capita di avere delle ambizioni, delle inclinazioni, dei sogni, che ci portano a voler perseguire una data carriera. E non vogliamo che il nostro percorso sia stabilito da quanto il potente di turno si aspetta siamo asservite. Vogliamo un futuro dove la “scelta” non sia tra l’essere virtuose e penalizzate o compiacenti e favorite.
Naturalmente sono consapevole che ci sono donne che accettano lo scambio tra sesso e favori, ma questo comportamento non fa da contraltare alla violenza. Non parifica nulla e non compensa in alcun modo le paure e le disparità.
Io ho il timore che chi è restìo a riconoscere il vero problema sia, in realtà, terrorizzato dal non poter contare più su un’impunità diffusa. In contesti dove, finora, ha prevalso una certa acquiescenza, la prospettiva di dover, improvvisamente, cominciare a rispondere delle proprie azioni dev’essere agghiacciante.
Questa ritrosia si manifesta anche in modi più sottili. Tanti obiettano che non tutti gli uomini sono violenti, che è sbagliato generalizzare e che il rispetto dev’essere bilaterale, indipendentemente dal genere di appartenenza. Tutto ineccepibile, se non fosse che non è questo il punto. Nessuno sostiene che tutti gli uomini siano violenti – io credo e confido che la stragrande maggioranza non lo sia. Esiste, però, una realtà fatta di paure e di abusi che non può essere ignorata o minimizzata prendendone semplicemente le distanze o disconoscendo la specificità del problema.
Come atteggiamento, mi ha ricordato la stessa sordità dell’«all lives matter», lo slogan lanciato in risposta al «black lives matter». È naturale che «tutte le vite contino». Il punto è che, tuttora, sono le vite dei neri ad essere, statisticamente, più a rischio.
Qualche giorno fa mi è capitato di rileggere un articolo di Concita De Gregorio pubblicato nel 2015 su Repubblica. Dinanzi a chi ha poca dimestichezza con le categorie di giusto e sbagliato, De Gregorio suggerisce di documentare e opporre la ferocia incontrovertibile dei fatti.
Che il fenomeno non sia adeguatamente raccontato, viene ribadito anche nel Manifesto di Venezia, la dichiarazione programmatica adottata dalla stampa, nella quale i firmatari si impegnano a «superare la vecchia cultura della sottovalutazione della violenza». Il documento descrive la violenza di genere come «sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico» e invita, tra le altre cose, a non utilizzare il linguaggio fuorviante di chi accosta il femminicidio alla «passione» e a non fornire giustificazioni e attenuanti agli omicidi (è possibile aderire qui: moc.liamg @isnf.opc).
Giudiziariamente, un individuo è innocente finché non ne sia provata la colpevolezza. Però, anche laddove non ci siano certezze, è comunque possibile formarsi un’opinione circostanziata. Non attendiamo un pronunciamento della Cassazione per valutare un personaggio pubblico. Questa circospezione, in cui si arriva addirittura a fornire solidarietà a chi offende, e a ignorare, se non denigrare, le vittime, si riscontra solo nei casi di molestia sessuale.
Anche le tivù e il web che, di solito, pullulano di esperti e persone informate dei fatti, in questo caso, e solo in questo caso, danno prova di un inedito garantismo. Ma parlare di caccia alle streghe è fuorviante, perché gli abusi non sono fantomatici. Sono reali.
E allora perché le donne non denunciano?
Qualche anno fa, in California, una giovane e brillante dottoressa di mia conoscenza aveva subito delle molestie da parte di un suo superiore. La ragazza si era consultata con un supervisore per avere lumi su come comportarsi, ed era stata caldamente scoraggiata a intraprendere una qualunque azione. Anche se era un suo diritto denunciare la cosa, questo le avrebbe senz’altro causato parecchi problemi per via della disparità di potere tra lei e l’uomo che l’aveva importunata e perché, anche se avesse vinto una causa, nessuno avrebbe più voluto lavorare con lei. Le parole usate dal supervisore furono «rappresenterebbe una macchia sul tuo curriculum».
Uno studio della US Equal Opportunity Commission, l’agenzia governativa che vaglia le denunce di molestie sessuali, ha stabilito che il 75% degli individui che segnala un abuso subisce poi delle ritorsioni.
Io spero che una storia e dei dati come questi sia esemplificativi per coloro che spostano l’attenzione su una presunta vigliaccheria delle vittime, piuttosto che sull’impunità su cui conta, o contava, un molestatore.
È particolarmente avvilente che ci siano anche donne a ingrossare le fila del coro del «perché non ha parlato prima?» e ad aggiungere confusione al dibattito. Nella lettera di Catherine Deneuve apparsa su Le Monde si legge addirittura di un «diritto d’importunare» che, con buona pace di chi agita lo spettro del puritanesimo, non sussiste. E non ha nulla a che fare con cose meravigliose come la seduzione e il corteggiamento.
Io non conosco la ragione di tanta riluttanza a chiamare le cose per il loro nome. Non sono neanche sicura se questa confusione venga alimentata ad arte o perpetuata in buona fede. Mi sono domandata se, temendo di perdere l’approvazione degli uomini, non si preferisca spalleggiare loro, anziché le vittime.
Eppure non dovremmo temere di alienarci le simpatie di chi reagisce a un dramma vecchio come il mondo con stizza, diniego o perfino sarcasmo.
È interessante che il fulcro si sia poi spostato dagli abusi a come riuscire a portarsi una donna a letto senza incorrere in una denuncia. Poiché questa sembra attualmente la principale preoccupazione, proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Nessuna donna denuncerà un uomo che le chieda di uscire o le faccia un complimento. Forse lo denuncerà se, dopo un eventuale rifiuto, l’uomo si sentirà in diritto di prendere quello che vuole con la forza, o, se è più potente di lei, di fargliela pagare in altro modo. Il confine tra molestia e avance, nel caso occorra ribadirlo, giace sul consenso (e il criterio di riconoscimento sul posto di lavoro, sul merito).
Noi donne adoreremmo un ritorno al romanticismo. Sarebbe un sogno se potessimo sostituire ogni molestatore con un seduttore. La differenza? Il primo afferra tutto quello che vuole, il secondo si dedica all’oggetto del proprio desiderio.
Se il discrimine non è chiaro, proviamo a fare un esercizio d’empatia: pensate a una donna a cui tenete molto, per esempio vostra sorella o la vostra migliore amica. Immaginate che un uomo le si rivolga e la tratti come voi vi rivolgete alle altre nella vita quotidiana e sui social. Vi sentite contenti, sollevati, orgogliosi? Se la risposta è negativa, allora è il caso di farsi qualche domanda.
Se siete confusi, significa che ci conoscete poco. Chiedete. Parlate con noi. Provate a conoscerci. Ne vale la pena, ve l’assicuro.