Tra le grida della folla, un uomo corpulento sale sul piedistallo della statua. Gli attacca un cordone al collo e in un attimo questa viene tirata violentemente giù. A terra è ormai accartocciata, irriconoscibile. In quel momento, la marmaglia urlante vi si scaglia addosso. Tra calci, sputi e gestacci, la lincia.
La scena che vi abbiamo appena descritto non è avvenuta a Palmira, dove l’ISIS prese a picconate capolavori dell’arte antica tra le grida scandalizzate del mondo, né a Bamiyan, in Afganistan, dove i talebani fecero esplodere nel 2001 due colossali statue del Buddha, ritenute “blasfeme”. No. Questa volta i protagonisti non sono barbuti jihadisti, nemici della civiltà. Tutto ciò accadeva pochi giorni fa a Durham (North Carolina), negli Stati Uniti. A farne le spese, un monumento innalzato negli anni ’20 ai caduti confederati, molto simile a quelli che nelle nostre città sono dedicati al milite ignoto.
Fosse un atto di vandalismo isolato, l’episodio sarebbe certo deplorevole, ma in fondo trascurabile. Ma non si tratta affatto di un caso raro. Ultimamente, gli USA sono stati travolti da una folle furia iconoclasta, che sta trascinando il paese tra gli abissi di un nuovo Medioevo, cancellando senza alcun riguardo pezzi importanti di Storia.
Dopo le violenze avvenute a Charlottesville, che hanno visto il riemergere di inaccettabili estremismi di destra, i nuovi barbari hanno deciso di fare piazza pulita, distruggendo numerosi monumenti raffiguranti personaggi della Confederazione, considerati gli “ispiratori” dei neonazisti e dei suprematisti bianchi. Un po’ come se da noi decidessimo di abbattere tutte le vestigia romane, solo perché i fascisti avevano un debole per l’impero.
E allora da Orlando a Louisville, da New York a Saint Louis, passando per Los Angeles, San Diego, New Orleans, Austin, Baltimore, Rockville, Gainesville, e tante altre città, giù con le ruspe. Qualsiasi monumento storico dedicato a personaggi della Confederazione viene rimosso, spesso nottetempo, per non dare troppo nell’occhio.
Bersaglio preferito, Robert Edward Lee (1807-1870), comandante in capo dell’armata della Virginia del Nord (e poi delle armate confederate) durante la guerra civile americana. Ovviamente, i nuovi barbari non sanno nulla di lui. Non sanno che Lee era discendente di un eroe della Rivoluzione. Non sanno che, militare di fama nell’esercito degli Stati Uniti, allo scoppio della guerra era contrario alla secessione, ma rifiutò il comando delle truppe dell’Unione decidendo di combattere dall’altra parte per non dover marciare un giorno da invasore nel proprio stato, la Virginia. Ignorano che durante il conflitto fu temuto, ma anche ammirato, dai propri nemici, che lo considerarono un avversario degno di rispetto per le sue abilità strategiche.
Non sanno, i nuovi barbari, che dopo la guerra Lee si impegnò in prima persona per instaurare un clima di riconciliazione e unità tra il Sud sconfitto e il Nord vittorioso. Per “sanare le ferite”, come auspicava Lincoln, di una guerra fratricida che era costata fiumi di sangue.
Non sanno, infine, i talebani in salsa yankee, che molti di questi monumenti furono innalzati dagli unionisti (sì, proprio da quelli che avevano vinto) e che al cimitero nazionale di Arlington, a Washington D.C., un’intera sezione è dedicata ai caduti confederati. Il motivo era chiaro: riconoscere ai vinti un minimo di pietà umana, in quanto connazionali. Non certo dargli ragione ex post! Insomma, andrebbero capite le vicende che portarono a innalzare gran parte di quei monumenti, prima di abbatterli.
E sì, Robert E. Lee possedeva degli schiavi nelle sue piantagioni, così come li possedevano George Washington e Thomas Jefferson. Lo schiavismo fu una pratica infame, che a lungo rimarrà impressa nell’eredità degli USA, e nessuno pone sullo stesso piano morale sudisti e nordisti, tantomeno i governi, democratici o repubblicani, che hanno eretto nel secolo scorso tali monumenti.
Ma la Storia di ogni popolo è fatta di violenze, soprusi, dolore. Non la si cancella abbattendo statue o flagellando opere d’arte: le sue pagine più oscure vanno studiate, e servono da monito a non commettere gli stessi errori nel futuro. È questo ciò che ci dovrebbe distinguere dai barbari dell’Alto Medioevo.
Siamo davvero sicuri che per portare avanti una legittima opposizione politica a Trump, possiamo tacere (o peggio avallare) azioni degne del più estremista dei talebani?
Certo, dopo i fatti di Charlottesville, il presidente ha tentennato (almeno all’inizio) nel condannare i suprematisti, facendo un errore madornale e scatenando sacrosante polemiche. E di Storia, The Donald, non sa quasi nulla, tanto da affermare, qualche tempo addietro, che il presidente Andrew Jackson fosse ancora vivo durante la guerra civile (morì invece nel 1845).
L’ultimo discorso pronunciato a Phoenix, in cui il presidente ha “raddoppiato”, continuando la propria guerra personale con i media e alzando opportunisticamente un ulteriore polverone per ricompattare la propria base (soprattutto dopo le ultime turbolente vicende dentro l’amministrazione) non aiuta a rasserenare gli animi.
Ciò nonostante, quando qualche tempo fa ha espresso la sua opinione sull’abbattimento delle statue, ha capito più di altri qual era la posta in gioco. “Stanno provando a portar via la nostra cultura. Stanno provando a portar via la nostra storia”, ha detto. “Le statue di Washington e Jefferson saranno le prossime?”, ha domandato in maniera provocatoria di fronte ai giornalisti che lo incalzavano.
A quanto pare, sì. E a suggerirlo non sono teppisti privi di istruzione, ma esponenti di spicco dell’élite politica, mediatica e fianco accademica (sic!) a stelle e strisce. Appena qualche giorno fa, Angela Rye, commentatrice CNN ed ex direttrice del Congressional Black Caucus (gruppo parlamentare di area democratica) ha affermato senza mezzi termini: “non mi interessa se è una statua di George Washington, Thomas Jefferson o Robert E. Lee, vanno abbattute tutte”.
D’accordo, in linea di principio, sembra essere persino un personaggio generalmente rispettato, come il reverendo Al Sharpton, leader dei diritti civili negli anni ’60 e membro del partito democratico, il quale suggerisce di tagliare i fondi pubblici al Jefferson Memorial, monumento neoclassico situato a Washington D.C. Dopotutto, Jefferson era uno schiavista, che ha fatto di buono nella vita a parte scrivere la Costituzione su cui si fonda la più grande democrazia del mondo? Per non essere da meno Nancy Pelosi, leader dei democratici al Congresso, propone l’abbattimento delle statue di eroi di guerra confederati a Capitol Hill. La lista potrebbe continuare, ci fermiamo solo per decenza.

I barbari sono calati persino a Manhattan, prendendo di mira anche il povero Cristoforo Colombo. Ieri il sindaco (o dovremmo ribattezzarlo “Mullah”?), di New York Bill De Blasio, ha annunciato che istituirà una commissione incaricata di individuare entro 90 giorni tutti i monumenti “simboli di odio” presenti in città, al fine di rimuoverli. Tra questi, la celebre statua del navigatore genovese presente a Columbus Circle (che a questo punto per coerenza dovrebbe cambiare anche il nome). Si tratta, ironicamente, di un’opera dello scultore italiano Gaetano Russo, eretta nel 1892 (cioè nel quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America) e finanziato da una raccolta fondi del giornale italo-americano Il Progresso, a simboleggiare l’amicizia tra le due nazioni e l’attaccamento della comunità italo-americana agli USA. Altro che odio.
Di peggio è successo a Baltimora, dove una statua di Colombo risalente alla fine del XVIII secolo è stata presa a martellate da un gruppo di manifestanti “antirazzisti”.
La ragione di tanta rabbia nei confronti dello scopritore dell’America? Colombo era un razzista, e trattava in modo disumano gli indigeni. Un altro triste esempio di come deformare la Storia giudicando un uomo del XVI secolo con i paraocchi della contemporaneità, invece di studiare e contestualizzare la sua figura. Speriamo non si arrivi a tanto e che vi sia una reazione almeno della comunità italiana newyorkese per fermare la ruspa.
Se credete che le follie appena descritte siano soltanto figlie della cieca opposizione a Donald Trump, però, vi sbagliate di grosso. Il presidente, figura che ha polarizzato la già divisa opinione pubblica americana, è stato solo il detonatore, ma a ben vedere i segnali di tale (in)cultura, figlia degenerata dell’ideologia politically correct, erano già presenti nel recente passato.
La bomba è esplosa oggi, ma era già stata caricata. Proprio due giorni fa, sul Guardian, un raffazzonato articolo a firma Afua Hirsch arrivava ad auspicare l’abbattimento della statua di Horatio Nelson presente a Trafalgar Square (Londra) visto che l’ammiraglio in questione (simbolo dell’orgoglio patriottico inglese nella resistenza contro Napoleone) aveva arruolato schiavi neri nella flotta.
Sulla scia di questo non-pensiero, l’esempio di Colombo è emblematico: da anni assistiamo a tentativi (che in alcuni stati hanno avuto successo) di abolizione del tradizionale Columbus Day, una festività che a partire dal 1937 è diventata la gioiosa celebrazione con cui la comunità italiana oltreoceano festeggia la propria identità, in perfetta armonia con lo spirito della nuova nazione americana di cui fa parte. Tutto il contrario dell’odio che i nuovi barbari vorrebbero fermare.
Di questo passo, se non si mette fine a tale delirio orwelliano, arriveremo presto ad abolire lo studio di Platone e Aristotele (noti schiavisti), a minare il Colosseo (luogo di tortura e violenza), a cancellare dai libri di Storia figure come Cesare o Carlo Magno (crudeli genocidi) o artisti come Caravaggio (impenitente assassino).
Fino a diventare una torma di analfabeti, perdendo completamente qualsiasi consapevolezza del passato, e, di conseguenza, qualunque prospettiva per il futuro.