Il 19 luglio del 1992 un’autobomba piazzata in via d’Amelio 19 uccideva il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Palermo ricorda questo momento tragico della sua storia con varie manifestazioni e a nessuna si è sottratta Rita Borsellino, sorella più giovane del magistrato, che negli anni ne ha tenuta viva la memoria e che nel suo nome ha aperto il Centro studi Paolo Borsellino, un luogo di ricerca e di formazione alla legalità e alla partecipazione civile. Da New York, abbiamo raggiunto Rita al telefono per qualche domanda.

Sono trascorsi 25 anni dalla strage di via d’Amelio e da quella di Capaci. Queste morti hanno cambiato la storia italiana. Non si rischia che l’eccesso di commemorazioni le svuoti di significato?
“A me le celebrazioni non piacciono e le vivo proprio con sacrificio perché tendono a mistificare i risultati e a far sembrare che tutto va bene. I 25 anni dalla morte di Paolo li vedo riflessi in me, nei miei figli, nei miei nipoti, nati tutti dopo la sua morte. Per loro Paolo non è solo lo zio, anche se lo hanno conosciuto attraverso di noi, ma è un modello ed è un simbolo su cui hanno improntato la loro vita e il loro essere. La sorpresa per me è vedere ancora che, non solo loro, ma i ragazzi delle scuole hanno come punto di riferimento Giovanni e Paolo; eppure non li hanno conosciuti e questo significa che pur avendoli incontrati nel passato, avendoli scoperti come modelli se ne sono appropriati e quel passato è diventato futuro, cambiamento”.
Come è possibile credere in uno Stato che dopo 25 anni non riesce ancora a far luce sulla morte di Paolo? Non ti senti tradita?
“Quello che mi addolora ancora oggi è questo negargli la verità. Sul valore dello Stato Paolo ha dato una risposta proprio ad un gruppo di studenti in Sicilia che se ne lamentavano. “Lo Stato è fatto di uomini e io sono un uomo dello Stato – rispose. Ma è uomo dello Stato anche chi lo tradisce e bisogna distinguere e giudicare gli uomini , mai le istituzioni perché sono sacre e non vanno colpevolizzate. Bisogna cambiare gli uomini e giudicare gli uomini”. A questa sacralità lui ha creduto fino alla fine, anche quando sapeva già di essere stato tradito”.

La giustizia per cui Paolo ha dato la vita, nelle scorse settimane, ha emesso una sentenza che avrebbe potuto consentire la scarcerazione di Totò Riina. Come ha reagito Rita Borsellino di fronte a questa possibilità?
“Tanti hanno reagito con foga, con rabbia a questa sentenza usando termini non degni di un cittadino responsabile ma degni più di Riina e dei suoi compagni. Io ho commentato richiamandomi alla Costituzione. La Costituzione non cerca vendette ma deve far applicare la giustizia. Tutto qui. Ci sono norme ben precise che regolano tutto il procedimento di Riina e le norme vanno applicate e ci sono i giudizi deputati a farle applicare. Era da due anni che Riina era in ospedale e veniva curato lì, perché improvvisamente si viene fuori con la richiesta di una morte dignitosa accompagnata dall’uscita dall’ospedale? Ho apprezzato quanto fatto da Rosi Bindi, la presidente della Commissione Antimafia, che è andata a verificare di persona. Ha constatato che Riina viene curato perfettamente come dovrebbe essere per chiunque e purtroppo non è sempre così, come nel caso di Stefano Cucchi che invece è stato ucciso ed era stato arrestato per reati molto inferiori a quelli di Riina o come accade per molti migranti che finiscono in cella senza che alcuno se ne curi. Trasferire Riina a Corleone implicherebbe non garantirgli quelle cure, ma avere la moglie, la famiglia vicini e forse questo potrebbe essere più pericoloso, perché continua ad essere lucido e sappiamo che è bastato un solo suo sguardo per far scatenare la morte. E’ vero che alle sue finestre, in ospedale, ci sono le sbarre ma io ritengo che è curato come tutti i malati che sono destinati alla fine di una terapia a guarire o a morire dignitosamente al di là di tutto”.
C’è una definizione di giustizia particolarmente cara a Rita Borsellino?
“La giustizia, per me, era incarnata da Paolo. Il modo in cui faceva e viveva il suo lavoro non era qualcosa oltre la sua vita, era la sua vita e la scelta di ogni sua giornata. Lui si comportava secondo giustizia e poi la applicava agli altri. Quando era piccolo e tornava da scuola ripeteva spesso: “Non è giusto!”. Questa frase è diventata la sua vita, la sua professione, perché voleva che tutti avessero le stesse opportunità e non ci fossero diseguaglianze. Voleva studiare diritto perché tutti potessero godere e usufruire della giustizia allo stesso modo ed è quello che ha perseguito fino alla fine e per cui ha sacrificato la vita”.
In questo rapporto unico con Paolo, quanto ha contato il tuo essere donna, quanto l’essere donne può incidere nella resistenza alle mafie?
“Io ho fatto di tutto perché la memoria di Paolo restasse viva nelle persone e questa è una parte che le donne fanno straordinariamente, ma io non sono Paolo: sono troppo diversa e non ho la sua competenza. La mia non è lotta contro la mafia perché io non posso fare nulla di scientifico o giudiziario come lui, ma in questa lotta io posso contribuire a formare una società diversa, dove le persone si comportino in modo tale che queste cose orribili accadute a noi non siano più possibili. Io faccio la mia parte perché un pezzo del mio Paese non sia territorio dominato, conquistato dalla mafia e che la democrazia sia veramente partecipata e ciascuno si senta responsabile della propria cittadinanza. Questo è quello che ho provato a consegnare ai ragazzi e me lo aveva insegnato Paolo che nelle scuole andava e credeva profondamente al ruolo che i giovani potevano avere nel nostro Paese”.

Un’altra versione di questa intervista viene pubblicata anche sul giornale Città Nuova.