Ha aperto i battenti a Chelsea, da Aperture, la mostra collettiva On Freedom (Aperture Gallery, 547 West 27th Street, New York: dal 14 luglio al 17 agosto) ad opera dell’organizzazione For Freedoms, attivi nel campo dei diritti umani e vincitori quest’anno dell’Infinity Award. Il gruppo si ispira alle “Quattro libertà” di Roosevelt: libertà di parola e di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale) e libertà dalla paura. Da quattro, su queste pareti le libertà si moltiplicano e rifraggono in varie sfaccettature, tante quante i punti di vista e le esperienze degli artisti, più di sessanta. C’è ad esempio chi come Jess T. Dugan, basata a Chicago e diplomata ad Harvard ha indagato l’identità sessuale: “Le questioni che circondano l’identità sono una forza trainante della mia vita e del mio lavoro e, in quanto tale, ho sempre cercato di fare ritratti fotografici per cercare una più profonda comprensione della condizione umana. Negli ultimi dieci anni, le mie fotografie hanno esplorato temi di gender, sessualità, identità e comunità, oscillando tra un esame soggettivo interno e focalizzato, e uno socialmente e politicamente motivato nella comunità LGBTQ. Queste prospettive sono inestricabilmente legate alla mia pratica.
La mia personale identità come persona queer è intrinsecamente politica e la rappresentazione aperta del mio corpo, delle esperienze e della famiglia in relazione alla mia identità di genere e sessualità creano una piattaforma da cui posso dialogare intimamente con gli altri sulla loro vita e le loro esperienze”. Jon Henry, newyorkese, presenta il suo progetto fotografico in corso sugli uomini neri assassinati dalla violenza della polizia. Le storie di Sean Bell, Michael Brown, Eric Garner, Akai Gurley, Tamir Rice e innumerevoli altri sono fotografate utilizzando la Pietà come riferimento, la Vergine che regge il corpo del Cristo morto. L’attenzione è rivolta alle madri, fotografate con i figli o sole. Dan Farnum, che insegna fotografia a Tulsa, ha fatto un lavoro sulle periferie delle “auto town” del Michigan – Detroit, Flint, Saginaw, Ypsilanti – paragonando la difficoltà di diventare uomini e donne in questi posti degradati al processo di ricostruzione urbanistica delle aree stesse. Angie Smith, fotografa di celebrity a Los Angeles, mostra una foto del suo progetto sui rifugiati politici, mentre il ventiquattrenne Jared Thorne parla di paesaggio, potere e privilegio nella sua serie 26 Planned Parenhood, i consultori di cui si servono le donne delle comunità più povere in Ohio. Ma si potrebbe andare avanti ancora.
I curatori spiegano questa molteplicità: “Nelle mani di alcuni fotografi la macchina funge da specchio, riflettendo sui confini che rendono visibile la disuguaglianza sociale. In altri, la macchina serve come strumento di liberazione – per corpo mente, dal pericolo personale e globale, da costrutti sociali e limitazioni politiche. La selezione dimostra come la natura democratica della fotografia possa servire come veicolo a diverse prospettive per visualizzare i problemi sociali, accendere il dialogo e trasformare i pregiudizi. Per molti la libertà può essere un’illusione, ma i fotografi presenti in mostra si sono impegnati a mappare nuovi aspetti di questo terreno critico, identificando un percorso, indicando i pericoli lungo la strada – e sempre puntando alla luce”.
La location della mostra è uno dei templi della fotografia newyorkese, Aperture, una fondazione non profit creata nel 1952 da fotografi e scrittori come “terreno comune per l’avanzare della fotografia”, e divenuta oggi una casa editrice che porta da New York progetti e programmi in tutto il mondo. E ieri c’erano tutti: dalla bookmaker extraordinaire Bonnie Briant, all’autore Teju Cole, dal fotografo Bayeté Ross Smith al curator Wyatt Gallery, dall’antropologa Maria Maione all’artista Chester Toye, al personal trainer Sultan Malik, libero dopo 15 anni in prigione, commosso protagonista di uno degli scatti di una fotografa padovana di nome Francesca Magnani…