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Trump: il Congresso stringe il cerchio della mattanza democratica

Il presidente licenzia il direttore dell'FBI che indagava sul Russiagate

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Trump: il Congresso stringe il cerchio della mattanza democratica

20 gennaio 1917: Donald Trump giura da presidente sulla Costituzione degli Stati Uniti d'America

Time: 5 mins read
Il direttore dell’FBI James Comey, appena licenziato dal presidente Trump

Nelle redazioni dei giornali liberi, c’è una espressione molto usata, spesso nei titoli, che spiega quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti: il cerchio si stringe!

Infatti, il licenziamento del Direttore dell’FBI James Comey da parte del Presidente Donald Trump, non è una dimostrazione di forza da parte della Casa Bianca, ma al contrario ci appare come la scena di una mattanza, dove il tonno presidente oramai insanguinato dalle bastonate e dagli arpioni del Congresso, sbatte contro le reti che si stringono, stringono e ormai si apprestano a decretargli la fine.

Il cerchio si stringe per Trump, perché licenziare il capo dell’FBI adducendo un incredibile pretesto (Comey, secondo la motivazione del licenziamento della Casa Bianca, avrebbe perso la credibilità per via delle sue rivelazioni su Clinton verso la fine della campagna elettorale! Proprio quelle per cui lo stesso Trump lo aveva più volte lodato!)  proprio mentre lo stesso Comey solo la scorsa settimana aveva testimoniato al Congresso che l’FBI stava procedendo con le indagini sul cosidetto “Russiagate”, fa capire quanto il “tonno Trump” ormai in preda al panico stia dando gli ultimi colpi di coda.

Infatti le indagini dell’FBI come quelle del Congresso potrebbero provare, da un giorno all’altro, che la campagna elettorale di Trump non solo abbia beneficiato delle interferenze russe, ma che le abbia incoraggiate (accuse che se venissero provate porterebbero all’ovvio impeachment per Trump). Ecco che allora il licenziamento di un pur controverso direttore dell’FBI col pretesto che ha abusato della sua carica nel pubblicizzare le indagini sulla Clinton (ma davvero? Allora perché Trump non lo licenziò subito il 20 gennaio? Incredibile la spocchia del presidente nel sostenere l’insostenibile…) è un chiaro gesto di disperazione di chi sente al collo il fiato della giustizia della democrazia USA che, anche questa volta, come già avvenne in piena Guerra Fredda per Richard Nixon nel 1973, non perdonerebbe il suo “Commander in Chief”.

La lettera con cui Trump informa Comey del suo licenziamento

La notizia del licenziamento di Comey, che lui avrebbe appreso guardando la tv mentre si trovava a Los Angeles in visita ad un ufficio dell’FBI, ha riportato indietro l’orologio della democrazia americana a quel momento di 45 anni fa quando, nel cosiddetto “Saturday Massacre”, Il presidente Nixon licenziò Archibald Cox, l’indipendente “special prosecutor” incaricato delle indagini per lo scandalo Watergate. Nixon quel sabato sera del 20 ottobre del 1973, non riusciva a trovare nessuno nella sua amministrazione che volesse licenziare chi stava indagando su di lui,  e si ritrovò a fronteggiare una serie di importanti dimissioni dal suo governo, tra cui il ministro della giustizia e il suo vice: fu proprio una mattanza, che fece capire al mondo che il cerchio si era ormai stretto e che la fine di “Tricky Dicky” era ormai segnata.

Le bastonate della mattanza contro Trump sono iniziate, fortissime, da qualche settimana al Congresso, mentre si ascoltavano le testimonianze che raccontavano, per esempio, dell’inizio della fine per il suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Flynn. Capire quanto tempo ci volle per Trump per licenziarlo, quando la nuova amministrazione aveva già saputo dall’amministrazione Obama che quel consigliere nazionale era un pericolo per quei contatti “nascosti” con i russi, ha ormai fatto ben capire a tanti senatori, anche repubblicani, che la pista del Russiagate non è l’espediente politico per danneggiare un presidente che già batte ogni record di ogni indice di impopolarità (nonostante le super bombe e i missili lanciati, Trump resta più o meno al 40% della popolarità, record negativo per un neo presidente), ma un’ inchiesta che diventa sempre più seria su quello che potrebbe rivelarsi un atto di “alto tradimento”: ormai le indagini non possono essere più fermate, dovranno andare fino in fondo se la democrazia americana vuol restare credibile agli occhi del mondo.

Noi, da italiani o conoscitori della storia d’Italia, dovremmo ricordarci che Benito Mussolini governò da primo ministro circa due anni prima di instaurare la dittatura. Il passo da Duce, Mussolini lo fece dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, appunto per sottrarsi alle indagini che il Parlamento chiedeva contro il sequestro e l’omicidio del deputato socialista.

Benito Mussolini nel 1922, in Parlamento sui banchi del suo primo governo ancora costituzionale

Non è ammissibile fare il paragone tra la situazione di Trump oggi e quella di Mussolini poco prima dell’instaurazione della dittatura? Quel discorso fascista, fatto dopo aver ricevuto dal re l’incarico di formare il governo dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, quando aveva ancora soltanto un quarto del consenso degli italiani, quello famoso del “bivacco”, del “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti…”, ecco quel discorso sarebbe impensabile nel Congresso degli Stati Uniti d’America? Il trumpismo, che oggi ha solo un quarto di sostenitori in America, non è il fascismo?

Già, oggi (ma domani?) sembra anche a noi azzardato fare paragoni tra la fragile e immatura democrazia italiana dei primi anni Venti e quella degli Stati Uniti. Le istituzioni americane e la Costituzione USA godono di una salute ben diversa di quelle dell’Italietta del 1922-24.

Ma la disperazione di Trump, come un tonno insanguinato che batte la coda licenziando Comey, magari già pensando a quale missile lanciare per distrarre l’attenzione dalla mattanza della giustizia che si stringe attorno a lui, potrebbe cominciare ad assomigliare sempre più a quella del Mussolini della fine del 1924. Anche chi decise di diventare Duce si trovava in grande difficoltà e decise di giocarsi il tutto per tutto e, in quell’Italia dei pavidi e complici Savoia e senza una opposizione credibile che scelse di abbandonare il Parlamento, vinse. La grande differenza, per fortuna, è che oggi Trump si troverebbe contro la grande maggioranza del popolo americano, già sceso in piazza più volte e che non si farebbe intimidire e che spingerebbe il Congresso ad agire a colpi di indagini e giustizia, battendo colpo su colpo fino a quando il trumpismo e i suoi accoliti, verrebbero soffocati tra le reti strette di questa formidabile democrazia, dove nessuno può sottrarsi al giudizio della legge.

 

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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