Nessuno ha mai conosciuto i motivi che l’11 aprile 1987 spinsero Primo Levi a suicidarsi. Eppure molto è stato scritto, dal momento che questa morte volontaria è sempre sembrata così assurda per un sopravvissuto di Auschwitz.
Prendendo spunto da tali ipotesi, Uri Cohen dell’Università di Tel Aviv ha presentato mercoledì 8 febbraio la sua partecipata conferenza “To be or not. Considering Primo Levi’s Death”, organizzata dal Centro Primo Levi di New York con la Casa Italiana Zerilli Merimò della NYU. Il professore, che insegna Letteratura Italiana e Ebraica, definisce il suicidio di Levi una “lacuna definitiva alla fine della sua vita”. A differenza di Cesare Pavese – citato in apertura da Stefano Albertini, direttore della Casa NYU – Levi non lasciò nessun biglietto con la raccomandazione di non fare pettegolezzi; per cui, sostiene il professore, muovendoci nel campo minato delle ipotesi meglio fare riferimento alle opere di Levi o a figure intellettuali a lui affini.
Lo scrittore potrebbe avere trovato nella morte un rifugio, come Walter Benjamin. Ma non sappiamo se Benjamin, che come altri della sua generazione concepiva il suicidio come un atto individuale, morì volontariamente o per errore: nulla a che fare con Levi, che si definiva deportato e reduce.
Il suo suicidio potrebbe essere allora un modo per condannare il mondo. Cohen mostra una clip da Cesare deve morire dei fratelli Taviani (2012) dove gli attori interpretano la scena del suicidio di Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare. Il Bimillenario Augusteo celebrato dal regime fascista nel 1937 – con il Duce come Nuovo Augusto – potrebbe avere giocato un ruolo non irrilevante nel giovane Levi: come Bruto suicidandosi esprime la sua dignità civile, così un sopravvissuto alla Shoah che si uccide “esprime tutto il suo sdegno per un mondo dove non reputa degno vivere”.
Un’altra ipotesi sostiene invece che il suicidio fu frutto della delusione provata da Levi non tanto davanti al mondo post-Auschwitz, ma alla sorte infausta che continuava a toccare ai giusti. Cohen cita la descrizione che Levi fa, in Se questo è un uomo, di Lorenzo Perrone, il muratore piemontese che lavorò ad Auschwitz e che gli salvò la vita portandogli di nascosto cibo e vestiti. È pensando alla sua fine, avvenuta nel 1952, che Levi iniziò a capire che “il campo” (di concentramento) non era un’eccezione nella Storia. Lorenzo è descritto come figura di Cristo (“Si è al mondo per fare del bene, non per vantarsene”, sosteneva), che nel lager ricorda all’autore l’esistenza di un mondo giusto ma che dopo la guerra inizia ad autodistruggersi nell’alcool. In lui Levi vide un uomo giusto che rifiuta un mondo ingiusto ma anche un martire che si sacrifica punendosi perché non può più fare del bene agli altri. “Lui, che non era un reduce, era morto del male dei reduci”, scrisse Levi di lui.
Lo stesso male che uccise anche Levi? Non lo sappiamo, ma nel penultimo capitolo di Se questo è un uomo viene descritta l’impiccagione di un prigioniero di Auschwitz per aver partecipato a una rivolta contro i nazisti facendo saltare i forni crematori. Assistendo a un sacrificio compiuto in nome di un generoso ideale umano, Levi e gli altri prigionieri erano però “domati, spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende”: una sconfitta basata sulla tremenda vergogna di avere sopportato l’inumano senza il coraggio della ribellione estrema del suicidio. Gli unici testimoni del crimine nazista sono i morti, mentre i sopravvissuti sono sconfitti perché non hanno tenuto in considerazione la dignità umana, ovvero non si sono sacrificati o neppure suicidati. Mentre traduceva Il processo di Kafka negli anni ’80, Levi scrisse che ci si poteva vergognare di un crimine non commesso – come quello di cui è accusato Josef K. nel libro – fino alla morte e oltre: Levi si sarebbe vergognato di essere sopravvissuto come Josef K. si vergognò di essere un uomo.
Infine, se fosse un suicidio dettato dalla paura degli incubi che ritornano? Se davvero, come scrisse, ognuno è Caino per gli altri, e questa sensazione è un verme che scava dentro tutti, mostrando come tra lager e mondo la differenza sia minima?
Tutte queste supposizioni sono plausibili, conclude Cohen. L’unico filo conduttore che le lega e ce le spiega è, secondo lui, che Levi «abbia voluto deliberatamente lasciare la sua fine senza una risposta», che abbia scelto per la sua vita un finale aperto, dalle molteplici interpretazioni. Non sempre, sostiene il professore, è necessario trovare una risposta a tutto; ma a chi va ancora in cerca di una spiegazione sulla sua fine, lo scrittore ha lasciato la sfida più difficile, quella di decifrare l’enigma con cui scelse di chiudere la sua vicenda terrena.