Il silenzio, la sabbia fina a solleticarmi i piedi e una distesa d’acqua a malapena increspata dalle onde: poco più che bambina le mie domeniche d’estate trascorrevano così, mentre scrutavo l’orizzonte limpido e interrogativo, tentando di figurarmi cosa succedesse oltre quella linea che mi si poneva come limite per me inaccettabile. “Cosa c’è al di là del mare?” chiedevo spesso a mio padre, intento a raccattar vongole con le braccia semi immerse nei fondali bassi di Tre Fontane. “La Tunisia”, rispondeva sicuro.
Tanto bastava ad accendere la mia fantasia, che si popolava dei toni dell’arancio e del giallo e di casette sul mare, di cammelli e deserto, di cibi speziati e sorrisi gioviali, come quelli dei “vucumprà” che per le strade del mio paesino trascinavano carretti colmi di oggetti per qualsiasi evenienza. E un’idea mi sfiorava: che se mi fossi lasciata cullare dalle onde mentre facevo il morto a galla, mi sarei magicamente ritrovata dall’altra parte.
Italia e Tunisia. Così vicine e così lontane. E ancora così vicine.

Lina ha qualche anno più di me. È minuta e si mimetizza tra la folla. Quando viene annunciata sul palco del Mandela Forum, però, la sua figura esile si fa gigante: Lina Ben Mhenni, candidata al premio Nobel per la Pace nel 2011, stringe sicura il microfono e parla a oltre 10 mila studenti. Il tema è quello dei diritti umani nell’era delle nuove tecnologie, nell’International Day of Human Rights celebrato lo scorso dicembre a Firenze, capoluogo di una Toscana che all’epoca del Granducato fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
E chi meglio di lei può esprimersi in proposito? Poco più che ventenne, a colpi di post sul suo blog A Tunisian girl, ha documentato le fasi più concitate della Rivoluzione dei Gelsomini, giornalista e attivista tra i pochi a denunciare i soprusi del regime dittatoriale di Ben Ali firmandosi con il suo vero nome. Racconti di parole, immagini e video, diffusi viralmente anche attraverso l’uso dei propri account Facebook e Twitter, che hanno fornito informazioni di prima mano ai media internazionali su quanto stesse avvenendo, testimoniando le uccisioni e le violenze sui manifestanti.
Per questo, Lina è finita nelle maglie della censura del regime ed è stata minacciata di morte, ma – imperterrita – negli anni ha continuato a essere voce e occhi di chi tra l’avvicendarsi di un governo e l’altro, tra vecchi e “nuovi” personaggi e dinamiche di potere spesso immutate, è vittima di repressione perché appartenente a una minoranza o semplicemente perché esprime il proprio dissenso e il proprio grido di protesta, anche se in maniera pacifica.
Una Tunisia afflitta da un tasso enorme di disoccupazione a fronte di una popolazione con un’altissima percentuale di under 35 e dove varie forme di estemismo hanno ormai messo salde radici, terra di transito e di origine del traffico di quegli esseri umani che fanno capolino all’orizzonte di un Mediterraneo che si fa sempre più insidioso.
Lina, il tuo è un punto di vista privilegiato su quanto sta accadendo in Tunisia: qual è la minaccia più grave che incombe sul tuo Paese, in termini di questioni politiche e sociali? E quali potrebbero essere le conseguenze dell’attuale instabilità interna in un contesto più ampio e altrettanto instabile quale lo scenario internazionale odierno?
“Il Paese è sul filo del rasoio e la situazione oggi è molto rischiosa, se non pericolosa. Infatti, dopo sei anni dalla cacciata del dittatore Ben Ali, nulla è realmente mutato per i giovani tunisini che sono scesi in piazza e hanno affrontato di petto i prepotenti e i gas lacrimogeni, con il sogno di vedere le loro vite cambiare in meglio. Nessun governo ha mostrato una reale volontà di dialogare con i giovani e di affrontare i loro problemi, che potrebbero essere sintetizzati nel principale slogan intonato durante la rivoluzione: occupazione, libertà, dignità e giustizia sociale.
Alcuni hanno scelto di intraprendere pericolosi viaggi verso l’Europa, attraversando il Mediterraneo su piccole imbarcazioni, rischiando le loro vite. Altri sono stati indottrinati dagli estremisti e si sono uniti ai jihadisti in Paesi quali Siria e Iraq: oggi parliamo del mio Paese come del più grande esportatore di jihadisti e terroristi. Ma, invece di guardare alle radici del problema, il regime sceglie di ricorrere a misure di sicurezza che non possono risolvere la questione in maniera adeguata. Questo comportamento non può che essere controproducente poiché non fa che seminare odio e disprezzo nel profondo dei cuori”.

All’estero, la narrazione mediatica della Tunisia è quella di un Paese indicato quale esempio “virtuoso” tra i protagonisti della Primavera Araba… Potresti descrivermi i principali impatti che la rivoluzione ha avuto sulla Tunisia e cosa succede sotto il governo di Essebsi, all’indomani del sesto anniversario dell’inizio della rivolta?
“Oggi ci sono dimostrazioni e sit-in in diverse regioni del Paese. Alcuni giovani sono ricorsi agli scioperi della fame, ad esempio, per affermare il proprio diritto al lavoro. Veniamo nutriti con le promesse. E ancora, invece che pianificare delle strategie e mettere in campo delle soluzioni, il governo sceglie di ricorrere alle forze di sicurezza, attuando arresti e repressioni.
Quando i media parlano del successo della nostra rivoluzione, solitamente tendono a comparare quello che sta succedendo in Tunisia con quello che succede ad esempio in Siria o in Libia, sbagliando, poiché non si possono comparare Paesi e situazioni così diversi fra loro.
È vero che i tunisini sono riusciti a evitare una guerra civile e a eleggere un nuovo governo e un nuovo presidente in maniera democratica. È altrettanto vero che siamo riusciti a stendere una nuova costituzione, che rispetta relativamente i diritti umani e garantisce i diritti dei cittadini, che sancisce la libertà di parola e quella di riunione. Ma la maggior parte degli articoli in essa contenuti oggi sono soltanto inchiostro su carta.
In questo momento, ci sono persone che vengono arrestate per le loro opinioni o pensieri. Ci sono processi e condanne che prendono nel mirino i giovani che hanno partecipato a dimostrazioni pacifiche negli ultimi anni. Quando poi si guarda alle libertà individuali, la situazione è allarmante: basti pensare che gli omosessuali vengono arrestati per il loro orientamento sessuale.
Dopo la cacciata di Ben Ali avevamo iniziato a discutere della riforma dei media, del settore della sicurezza, della giustizia. Ma quasi niente è stato fatto. In generale, la situazione è peggiorata, così come gli standard di vita. La corruzione è ovunque e il terrorismo ha aggravato il quadro, come nuovo fenomeno al quale non eravamo abituati”.
Com’è successo che un Paese fondamentalmente laico sia diventato così permeabile alle ideologie estremiste?
“Quello che sta accadendo era prevedibile. Infatti, dopo la caduta di Ben Ali, abbiamo deciso di indire le elezioni per un’assemblea costituente: gli islamisti hanno vinto e, sotto il loro governo, l’estremismo ha invaso il nostro Paese.
I segni dell’avanzata del terrorismo c’erano, ma non c’è stata la volontà politica di combatterlo. Proclami d’odio sono stati permessi nelle moschee. I predicatori più estremisti provenienti dai paesi del Golfo sono stati accolti come vip ed è stato loro concesso di tenere conferenze in spazi pubblici. Questi dibattiti generalmente diffondevano le idee e ideologie più retrograde ed estremiste. Abbiamo iniziato a sentire di movimenti che si spacciavano per organizzazioni benefiche, che facilitavano i viaggi dei nostri giovani per il jihad. Ma non sono state prese serie misure per fermarli, né effettuate indagini per conoscerne la natura. Nessuno sforzo per punire i criminali che hanno commesso atti terroristici e omicidi politici. I diversi governi succedutisi hanno permesso la proliferazione del fenomeno: impunità ai terroristi e indulgenza con i proclami d’odio.
Penso che molte persone fossero terrorizzate dagli islamisti e principalmente da Ennahda (movimento di orientamento islamista moderato riconosciuto quale partito politico dopo la rivoluzione, ndr.) ed è per questo che poi hanno votato per un partito cosiddetto laico come Nidaa Tounes (fondato nel 2012 da Essesbi, ndr.), per liberarsi di loro. Ma appartenenti al regime di Ben Ali sono comunque riapparsi sulla scena politica senza essere giudicati per i crimini commessi sotto il regime del dittatore. Ancora oggi assistiamo al ritorno di vecchie pratiche. Come se non bastasse, la catastrofica situazione economica sta complicando le cose: i tunisini e la maggior parte dei giovani si sentono disillusi e traditi e questa perdita di speranza porta all’estremismo. Laddove molti esseri umani tentano di trovare rifugio nella religione poiché hanno perso la speranza, gli estremisti intervengono e avvicinano le persone più vulnerabili, tentando di far loro il lavaggio del cervello”.

Qual è la situazione in termini di libertà di parola e informazione in Tunisia? Ai giornalisti è permesso fare il proprio lavoro senza condizionamenti?
“I primi mesi dopo la caduta del dittatore stavamo provando a riformare i media, la situazione stava migliorando poiché nuovi canali e strumenti erano sorti. Ma non è durato molto. Progressivamente abbiamo iniziato a sentire di arresti di giornalisti, di blogger e anche di artisti a causa delle loro opinioni. A un certo punto alcuni giornalisti hanno iniziato a ricevere minacce di morte, che rappresentano una nuova forma di censura. Le istituzioni per i media che avevano iniziato a dar voce a tutti i partiti politici e a tutti i cittadini tunisini non sono più riuscite a resistere a lungo nell’affrontare la pressione dei più potenti partiti politici, delle lobby, dei businessmen e anche del regime. Oggi avvertiamo che tutto viene manipolato”.
Il nome del blog con il quale il mondo ti ha conosciuta è A Tunisian girl, titolo che esprime chiaramente l’intenzione di scrivere del tuo Paese da un punto di vista femminile, una forte dichiarazione d’identità come donna e come tunisina. Ma cosa vuol dire in questi giorni essere una ragazza tunisina?
“È vero che sto cercando di usare il mio blog per dare voce a persone che non hanno voce. Credo fermamente che le donne tunisine abbiano salvato il Paese da un bagno di sangue e dalla guerra civile e che lo salveranno dal terrorismo e dall’estremismo, hanno preso parte alla rivoluzione e prendono parte alla costruzione del Paese. Le donne tunisine sono presenti in tutti i settori della vita attiva e, nonostante i diversi tentativi di limitare i loro diritti, hanno resistito e sono riuscite a preservare i loro vecchi diritti e a ottenerne di nuovi. Ma non posso parlare per tutte loro. Ovviamente, c’è una differenza tra quelle che vivono nella capitale e quelle che vivono in aree remote e che non sperimentano le stesse condizioni. Ma, consentimi di dire, che le donne tunisine sono delle grandi guerriere”.

Pensi ancora che la tecnologia possa fare la differenza in termini di partecipazione democratica e nel cambiare in qualche modo il mondo in cui viviamo?
“Sì, penso assolutamente che se utilizzate in maniera adeguata le nuove tecnologie possano fare la differenza in termini di partecipazione democratica e cambiamento del mondo in cui viviamo. La tecnologia è uno strumento potente, poiché riduce le distanze, consentendoci di comunicare in tempo reale. Chiaramente, come dico sempre, è necessario utilizzarla con moderazione e combinarla con l’azione concreta sul campo, nella vita vera. Da sola non è abbastanza”.
Diritti civili e giustizia sociale sono temi centrali dei tuoi interventi in pubblico e tramite i tuoi canali social sui quali hai tantissimi followers e sostenitori. Qual è la tua opinione in merito all’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti e quale impatto credi possa avere sul resto del mondo?
“A poche settimane dall’Inauguration Day di Trump, persone in tutto il mondo mostrano la loro contrarietà alla sua presidenza. Personalmente, penso rappresenti una reale minaccia per la democrazia, per i valori e i diritti umani e credo che la sua elezione inciderà in maniera negativa sul resto del mondo”.
Sono anni che continui a raccontare quanto succede esprimendo il tuo punto di vista. Non hai paura di eventuali ritorsioni? E quali sono gli obiettivi che credi vadano perseguiti?
“Quando combatti per un principio, non hai nulla da temere.
Per attuare il cambiamento servono dialogo con i giovani e giuste riforme su vari livelli, quali educazione, cultura, economia, occupazione, sicurezza e giustizia.
Ma, io sono ancora speranzosa per il Paese, perché la rivoluzione ci ha permesso di avere una forte società civile che sta veramente lavorando e combattendo per realizzare appieno gli obiettivi della rivoluzione”.