Ci voleva un bimbetto annegato e poggiato sulla spiaggia fangosa del fiume Naf, per far arrivare, in questo preoccupato avvio d’anno, alle opinioni pubbliche distratte, notizia dell’ennesima repressione in corso sul nostro feroce pianeta. E’ riecheggiato, davanti alla foto del piccolo Mohammed Shohayet, l’interrogativo che ci si pose davanti al cadaverino del siriano Aylan Kurdi rinvenuto su una spiaggia turca: perché gli innocenti? Cosa c’entra un bimbo con la crudeltà degli adulti? L’ipocrisia globale disse allora “mai più”! E come, se le guerre continuano e non si tagliano le radici dei conflitti? Raggeliamoci il sangue guardando il calendario: Aylan moriva nel settembre 2015, sedici mesi fa, proprio quando Mohammed nasceva.
Il padre di Mohammed ha raccontato come è morto a 16 mesi suo figlio, nell’intervista trasmessa da CNN. Moglie due bimbetti e il loro zio, sono una famiglia musulmana rohingya in fuga dall’attacco di buddisti birmani. Per arrivare al campo di raccolta bengalese devono attraversare il fiume Naf: le acque melmose tradiscono il piccolo. E comunque ad aspettarlo nei campi del sud est bengalese, ci sarebbero state le condizioni pietose nelle quali sopravvivono circa duecentomila rohingya.
Inutile chiedersi quanti Mohammed in fuga siano incastrati nel fango e nelle paludi dei fiumi di confine che scorrono pigramente nelle grandi pianure asiatiche. Proprio come è inutile porsi la stessa domanda rispetto ai tanti Aylan affogati nei fondali burrascosi del Mediterraneo. La risposta la conosciamo già: troppi. Immensamente troppi. Utile, semmai, è chiedersi cosa si possa fare per affermare un minimo di pietà e di diritto umanitario all’interno dei conflitti, in particolare di quelli etnici e religiosi, i più feroci di tutti, in quanto (anche) irrazionali e frutto di pregiudizio.
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Nel caso delle discriminazioni che i buddisti di etnia rakhine nel nord dello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, attuano contro la minoranza rohingya (poco più di 1 milione: su 4 milioni di abitanti dello stato, e 54 milioni di birmani), con centinaia di morti, villaggi incendiati, popolazione scacciata, la questione, in teoria, dovrebbe essere relativamente semplice. Quello stato fa parte della Birmania, chiamato Myanmar degli allora suoi padroni esclusivi, le forze armate. E’ un paese incamminato, grazie anche alla diplomazia americana, nel sentiero della democrazia che, con libere elezioni ha portato al potere, meno di un anno fa, la Lega Nazionale per la Democrazia, guidata da The Lady, Aung San Suu Kyi, icona democratica popolare in tutto il mondo, premio Nobel per la pace.
Il presidente della repubblica è un fedelissimo di Suu Kyi e lei è ministro degli Esteri, oltre a coordinare l’ufficio del Presidente. E allora perché la repressione rohingya, denunciata da tempo da Amnesty International e Human Rights Watch, HRW? E’ la politica, bellezza! verrebbe da rispondere.
Suu Kyi deve innanzitutto salvare il processo democratico e acquisire sufficiente forza per rispedire le forze armate nelle caserme, consolidando una costituzione e un assetto di potere che deve andare oltre la sua persona e il suo partito. Altro che rischiare di mandare tutto all’aria e inimicarsi monaci, istituzioni buddiste, manipolabilissime masse popolari che l’amano svisceratamente, per tutelare i diritti di un’infima parte di popolazione, comunque esclusa dal grande processo in corso che punta a restituire la Birmania al mondo!
Quella donna disciplinatissima, minuta ed esile, è stata spietata con se stessa e la sua famiglia pur di battere la dittatura militare, ha buttato via amore e famiglia e si è avvizzita sul suo sogno di Birmania democratica privandosi di ogni altro sogno, pur di realizzare il progetto che era stato di suo padre: non si farà certo battere adesso da scrupoli umanitari.
Il che spiega perché davanti alle foto satellitari che documentano incendi e bombardamenti dagli elicotteri di villaggi rohingya, barconi di umanità miserrima che affronta il grande fiume o si lascia tentare dall’oceano, pur di sfuggire alla certezza della repressione etnica, Suu Kyi si accodi ai militari nel definire le notizie che circolano, invenzione, propaganda ed esagerazione dei media occidentali. Eppure si nega l’evidenza, perché basta interrogare Google, visitare il sito di HRW o Amnesty International per vedere come stanno le cose.
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Per meglio capire cosa sta accadendo, bisogna partire da tre considerazioni: la prima è che Naypyidaw non riconosce ai Rohingya, diversamente da quanto fa con altri 135 gruppi etnici, lo status di cittadini e di minoranza, rendendoli apolidi; la seconda che quel popolo si disperde tra Myanmar, Bangladesh, Arabia Saudita, Pakistan; la terza è che si ritrova quasi ovunque discriminato e, anche per questo, in estrema povertà.
L’attuale crisi è iniziata con gli scontri del 2012, centinaia di morti e più di centomila persone in fuga, e si è avvitata sugli effetti di alcuni provvedimenti amministrativi successivi, a carattere discriminatorio, assunti dalle autorità in base all’assunto che i Rohingya non siano dei nazionali, ma bengalesi musulmani importati dalla colonizzazione britannica, un qualcosa sospeso tra il clandestino e l’apolide. Da “non cittadini”, privi di documenti (lo scorso anno sono state formalmente abrogate le carte d’identità temporanee, ultima identificazione ufficiale prima della “non esistenza” pura e semplice), nel più puro stile del dispotismo asiatico, hanno patito una serie di limitazioni: dall’impedimento alla libertà di circolazione, al divieto di avere più di due figli, alla negazione dei diritti proprietari. Sono stati spinti a vivere, fin quando resisteranno visto che in quelle condizioni anche trovare un lavoro diventa impossibile, in campi nei dintorni del capoluogo del Rakhine, Sittwe, ovviamente senza medici né istruzione.
Secondo la UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, nei primi tre anni della crisi sono fuggiti in paese vicini 40.000 rohingya l’anno, come a dire che in vent’anni il problema si risolverà da sé. Nel 2015, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata: fonti HRW affermano che nel primo trimestre 28.500 rohingya sono fuggiti via mare. Ma succede nei mari asiatici quello che quotidianamente si sperimenta in Europa. Oltre un certo limite, le porte si chiudono. Mancando un piano regionale di accoglienza (ASEAN, Association of South East Asian Nations ha poteri immensamente inferiori a quelli UE), oltre un certo limite si smette, perché la scala del fenomeno travalica l’aspetto umanitario e diventa questione economica e politica che incide sugli equilibri nazionali.
Fatto sta che, secondo le Nazioni Unite, ci sono circa 6.000 Rohingya alla deriva nel mare delle Andamane; stime di fonte umanitaria ne calcolano 30.000.
Malesia e Indonesia, benché paesi a maggioranza musulmana, hanno iniziato a respingere i rohingya: forniscono cibo e assistenza d’emergenza in mare ma non li lasciano sbarcare.. La Malesia ha accettato 150mila fuggitivi stranieri, 45mila dei quali rohingya.
La Thailandia, sin dai tempi dei “boat people” vietnamita punto di approdo favorito dei fuggitivi, sta reprimendo l’accoglienza perché vi ravvisa in realtà le caratteristiche di un disumano traffico di esseri umani, dove non sono mancate vittime e fosse comuni. Tra le conseguenze, abbandoni in mare aperto da parte degli scafisti, e iniziativa internazionale del governo sulla “migrazione irregolare nell’oceano Indiano” con i quindici paesi coinvolti. Bangladesh fa (male) quello che può. Il Pakistan (con la distante Arabia Saudita) soffia sul fuoco.
La verità è che solo se e quando Suu Kyi dovesse trovare il modo “politico” per dare una risposta, almeno sotto il profilo umanitario e dei diritti di cittadinanza, alla disperata situazione rohingya, questa potrebbe sperare in qualche soluzione. Da questo punto di vista, qualcosa sembra muoversi, anche perché prima l’appello di una dozzina di premi Nobel insieme a una decina di leader mondiali ha provato a stanare con lettera aperta l’ex perseguitata dei golpisti, poi l’invito formale dell’ONU di dicembre 2016 a visitare urgentemente il Rakhine per rendersi conto della situazione, dovrebbero aver convinto la ministra degli esteri che non era più possibile tergiversare nella politica del “tutto va bene madame la Marquise”.
Peraltro, il 9 ottobre era circolata notizia che tre postazioni di confine erano state attaccate da 250 armati e da allora i militari avevano rafforzato le misure contro la minoranza non riconosciuta, uccidendo altre 86 persone. La notizia viene ritenuta affidabile. Se l’attacco corrispondesse al vero, testimonierebbe che l’atteggiamento del governo sta dando spazio all’estremismo islamista, lì sostenuto da Pakistan e Arabia Saudita; se non lo fosse, testimonierebbe che i militari sentono mancarsi il terreno ed esagerano pericoli per giustificare la repressione della minoranza.
Erano stati quei fatti a spingere l’ufficio speciale ONU per la Birmania, a inviare, a novembre l’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, a visionare la situazione rohingya.
Alla luce della situazione, il consigliere speciale del Segretario generale ONU su Myanmar, Vijay Nambiar, avrebbe dichiarato: “The refusal by the Myanmar authorities to take a strong stance against hardliners, and the adoption of a generally defensive rather than proactive approach to providing security to the local population, have caused frustration locally and disappointment internationally … Only by responding concretely to these concerns will the government be able to resolve the crisis and preserve its international standing”.
Il 2 gennaio 2017, grazie a un video con agenti che rastrellano e picchiano rohingya, vengono arrestati quattro poliziotti: mai successo prima.
Nel frattempo la Malaysia, al cospetto delle immagini satellitari che testimoniano le distruzioni contro i Rohingya, cancella per protesta la partita di calcio prevista con Myanmar. Nambiar, dal palazzo di Vetro, parla di “pulizia etnica” in corso in Birmania.
Suu Kyi attende probabilmente che, nella società birmana, sorga un movimento di opinione che la sostenga, nella necessaria soluzione alla questione che ha ereditato da coloro che all’epoca (2012) erano suoi carnefici e adesso sono alleati non scelti nel governo della nazione. Impensabile che si presti a farsi portavoce del nazionalismo buddhista che interpreta il paese come l’ultima barriera dinanzi alla temuta invasione (demografica) islamica.