Ci sono due chiavi di lettura della California anni ’60 – primi anni ’70. La prima riporta agli hippie, al flower power, al “pace, amore, musica” degli studenti che occupavano le università per protestare contro la guerra in Vietnam, ma anche alla City Lights Bookstore di San Francisco e all’ombra benevola della beat generation (un po’ più vecchia, in verità, ma non tanto da non allungarsi fino a lì). E’, questa, fra le altre cose, la California che avrebbe partorito la Silicon Valley e la rivoluzione digitale, la seducente metafora della rete.
La seconda chiave di lettura è più sinistra. Conduce ad utopie negative, all’inferno delle droghe, ad Altamont. E, inevitabilmente, a Charles Manson, il responsabile (anche se non l’autore diretto) del celebre massacro di Bel Air dell’8 agosto 1969, in cui vennero uccise cinque persone, fra cui l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski.
Le ragazze, romanzo di esordio di Emma Cline (Sonoma, 1989), uno dei casi letterari dell’anno appena conclusosi, esplora questa seconda dimensione. Lo avevano già fatto altri, più o meno ispirati dalle gesta di Manson, oggi ottantaduenne, che, mentre scriviamo queste righe, è stato ricoverato urgentemente al Mercy Hospital (dove vengono spesso condotti i carcerati dello stato della California quando si ammalano) per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.
Lo aveva fatto ad esempio Jim Morrison, una delle voci meno rassicuranti della West Coast di quegli anni (“there’s a killer on the road…”), nonostante oggi i testi delle sue canzoni e delle sue poesie siano diventati altrettanti breviari da cui estrapolare frasette sdolcinate da postare su Facebook Lo hanno fatto film e persino serie TV. Ciò non toglie nulla al romanzo di Cline, prova di eccezionale bravura che risucchia il lettore nel suo gorgo.
La chiave del successo del libro sta nella scrittura: matura, efficace, fin troppo perfetta, ha commentato qualcuno, ma a questo credo dovremo abituarci, ormai le agenzie e le scuole di scrittura ci mettono il loro marchio di fabbrica e i loro cliché (ad esempio, la prolessi, ovvero l’anticipazione nell’incipit di uno dei momenti cruciali della storia: ho letto almeno tre o quattro libri così ultimamente). Tuttavia scrittura perfetta non significa fredda o artefatta.
La vicenda è narrata in prima persona da una adepta minore della setta, la Famiglia radunatasi all’epoca attorno a Manson, una che non ha ucciso e non è finita in galera, ma che nel frattempo è diventata adulta e comincia ad invecchiare, in solitudine. All’epoca dei fatti aveva 14 anni. Ed è questo il vero motivo di interesse. Perché un romanzo che avrebbe potuto essere “soltanto” la storia di uno dei più scioccanti casi di cronaca nera occorsi negli USA negli ultimi 50 anni, diventa un riflettore puntato su quella stagione bella e drammatica della vita che è l’adolescenza.
Che cosa può spingere una ragazzina che vive in un quartiere bene, anche se in una famiglia disastrata – come tante – a seguire una banda di balordi in un ranch sperduto nella Death Valley dove si mangia e si dorme pessimamente, si assumono droghe a ripetizione, si fanno feste orgiastiche, si preparano omicidi? Il bisogno d’amore, spiega la protagonista. E’ esattamente quello che ha dichiarato nel 2014 Patricia Krenwinkel, una delle responsabili dei delitti di quell’estate (quello della villa di Cielo Drive non fu l’unico), che come gli altri evitò la sedia elettrica solo perché la California aveva abolito la pena di morte poco prima della sentenza, e ha trascorso il resto della vita in prigione. E poi, l’insicurezza. Il tremendo bisogno di approvazione, di riconoscimento, da parte di qualcuno che si percepisce come più interessante, più esperto, più sicuro di sé, in definitiva più maturo.
“A quell’età – dice Evie, la protagonista– ero, prima e più di tutto, una cosa da giudicare, il che in ogni rapporto alterava le dinamiche di potere a favore dell’altra persona”.
Tutto questo è vero – in misura ovviamente variabile – per gran parte degli adolescenti. Ma lo è tanto di più per lei, ragazza “della porta accanto”, con un padre che ha lasciato la famiglia per una donna più giovane e una madre irrisolta, resa fragile dalla separazione. Gli adulti, in queste pagine, in generale non ci fanno una gran bella figura: nel migliore dei casi, infantili, inconcludenti, deboli; nel peggiore, manipolatori.
Del resto nel mondo dei simili, dei pari, cioè nel mondo degli adolescenti, non c’è solidarietà né consolazione. Cline è spietata nel raccontare i ragazzi, anche se in fondo quelli che descrive nella prima parte del romanzo sono, a loro volta, maschi “normali”: totalmente assorbiti dai loro interessi (moto, droghe), incapaci di empatia con le ragazze che frequentano (non parliamo di vero interesse, rispetto o attenzione), al tempo stesso maldestri e sprezzanti. Le ragazze non sono da meno, impegnate come sono a competere le une con le altre e a mettersi in mostra, perché per loro non c’è riconoscimento al di fuori di quello che può arrivare dall’attenzione maschile. Con una eccezione: le ragazze, cioè quelle lì, loro soltanto.
E’ per loro più che per Manson, qui ribattezzato Russell, che Evie inizia a frequentare il ranch. Le ragazze sono diverse. Trasandate nel vestire, apparentemente prive di mezzi e di scopi, eppure a proprio agio con se stesse e con il disagio che creano negli altri già solo entrando in un negozio. Sono le ragazze a prestarle soccorso, incontrandola per strada, con la catena della bicicletta a terra, in un momento di particolare vulnerabilità, avendo appena litigato con la madre. A farla salire sul furgone nero e a offrirle del vino. A condurla al ranch come un’offerta o una “vittima sacrificale” per la festa del solstizio, anche se il vero solstizio avrà luogo solo di lì a un mese. A farle indossare un nuovo vestito – usato, che puzza di merda di topo – e a sistemarle i capelli. A presentarle il leader, il guru, l’aspirante rockstar, l’ex-galeotto, il profeta.
Se il mondo dal quale si proviene è vuoto o infido, privo com’è di figure e e finanche di corpi intermedi (associazioni o quant’altro, che pure in quella stagione di forte impegno politico abbondavano, per non dire della scuola, quasi mai nominata) a qualcosa ci si deve aggrappare. E a qualcosa ci si deve anche dare, per continuare ad esistere. Che questo qualcosa sia una setta della peggior specie è, in fondo, soltanto “cattiva fortuna”.
In ogni pagina o quasi di questo libro c’è un odore, spesso un cattivo odore. In ogni pagina o quasi c’è un particolare anatomico, perlopiù sgradevole (capelli, piedi e denti sporchi, ascelle sudate). I luoghi clou – le camere del ranch, l’interno del pulmino, la roulotte di Russell – sono lerci. Il cibo viene raccolto dalle ragazze nei bidoni della spazzatura e comunque è un particolare secondario, nessuno se ne preoccupa. I bambini – qualche ragazza della setta è già madre – razzolano in giro assieme ai cani, che cagano dappertutto. Le api si posano sui pomodori andati a male. I tafani pungono senza tregua. L’unico ad accorgersi di come stanno le cose è uno studente che Evie conduce fin lì, subito sbigottito di fronte al clima di cospirazione e abbandono di quella specie di comune, e meravigliato del fatto che a lei ciò non salti agli occhi. Ma questo è molto tipico di chi vive dentro una sorta di cerchio magico e non riesce a vedersi “da fuori”.
La scrittura di Cline – tradotta magnificamente da Martina Testa nella versione italiana – crea a sua volta un cerchio magico. Così materica, così attenta a certi dettagli e non ad altri, può creare qualche difficoltà. Tuttavia è perfetta nel ricostruire il mood inquisitore con cui i ragazzi scrutano i loro simili e ancor più gli adulti, isolando il difetto, la sbavatura, lo squarcio nella tela. E subendo al tempo stesso la fascinazione di cose o persone apparentemente indecenti, o pericolose.
Il libro propone anche un contrappasso. La storia, come ho detto, è narrata da una protagonista minore della setta, nel frattempo divenuta adulta. E’ dunque uno sguardo a ritroso, non in presa diretta. In parte è una sorta di monologo interiore, ma in parte è un resoconto reale, che la donna fa ad una ragazza giovane, grossomodo dell’età che aveva lei quando conobbe Russell. Fra la donna che racconta, la donna che sfiorò una delle vicende più tragiche e anche più truculente di un’epoca non tutta felice, e la giovane, che ne ha solo sentito parlare vagamente, che deve andare su Internet a ricostruire i dettagli, scocca una scintilla, anche se per poco. Curiosità, mista ad ammirazione (della giovane verso quella più anziana). Come a dire che nulla è cambiato. Se la stagione dei guru alla Manson è tramontata, se quella psichedelia ingorda e fatua si è dissolta nel nulla, o forse si è travasata in qualcos’altro, l’adolescenza è sempre lì. Con il suo portato di insicurezze insopportabili, di vuoti che chiedono di essere colmati, di solidarietà “diaboliche”.
C’è il senso della tragedia in questo romanzo? Sì, anche se chiaramente non è scritto dalla parte delle vittime. E’ come un brivido, che scorre proprio alla fine, lungo la schiena della protagonista. La domanda che Evie si pone è ineludibile: se fossi entrata anch’io, in quella villa, quella sera, cosa avrei fatto? Avrei ucciso? Niente del suo personaggio lascia intravvedere pulsioni omicide, al contrario. Ma la risposta è franca e disarmante: forse sì. Per seguire l’ amica del cuore, certo. E poi – qui è l’adulta che parla– perché “c’era così tanta roba da distruggere”. Del mondo degli adulti e soprattutto del mondo dei maschi. Anche se poi, a farne le spese, possono essere degli innocenti: fra le vittime della strage ordita da Russell/Manson, dopotutto per motivi meschini – vendicarsi di un mancato contratto discografico – c’è per esempio una donna con il suo figlioletto, chiaramente l’alter-ego di Sharon Tate, che nella vita reale, come le altre vittime della Family, si trovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato, per di più incinta di 8 mesi.
Un’ultima considerazione. Per ben due volte Evie – probabile assassina mancata – teme per la sua vita. Teme cioè che degli sconosciuti possano farle del male, così, senza motivo. In questo suo timore vediamo rispecchiarsi, forse, i timori dell’America. Anche se Manson è ormai con un piede nella fossa.
Emma Cline, Le ragazze, Einaudi, 2016, traduzione di Martina Testa.
Titolo originale: The girls, Random House, 2015.