Il documentario Netflix su Amanda Knox tanto pubblicizzato in queste settimane non è altro che un ulteriore esempio di quel fenomeno mediatico che “il caso Amanda Knox” purtroppo è stato per nove anni.
In un girone infernale di cattivi giornali (e televisioni naturalmente) e cattivi giornalisti che hanno speculato per anni su quel che è successo intorno all’uccisione di una ragazza (Meredith Kercher, studentessa inglese che all’epoca dei fatti condivideva l’appartamento con Amanda, a Perugia), contribuendo a creare innocenti e colpevoli, mostri e figure da rotocalco e puntando alla morbosità più profonda della gente, in questo girone infernale, dicevamo, anche i registi Rod Blackhurst and Brian McGinn hanno avuto il loro scoop, quello cioè di farsi raccontare da Amanda Knox, in esclusiva, a 8 anni di distanza, quel che è successo, la sua verità, intervistando oltre a lei alcuni tra i principali protagonisti di quel lungo processo.
Ora, è evidente, dal documentario, uscito su Netflix il 30 settembre, ma anche semplicemente dalla sentenza delle due corti di appello, che la Polizia italiana nel caso del delitto di Meredith Kercher ha combinato un disastro quanto a incompetenza e negligenza nel condurre le indagini, sia da un punto di vista scientifico sia, sembra dal racconto della Knox, per quel che riguarda l’inammissibile condotta, nelle prime ore di interrogatorio della ragazza, tra intimidazioni e violenze fisiche ed emotive. Cose che tragicamente succedono ogni giorno in ogni angolo del mondo.
Quello che sorprende però è che a questo documentario non interessa cercare di capire quale possa essere la verità ma piuttosto (ancora una volta, la milionesima, anche se forse con più garbo e con un buon impianto narrativo) andare a sollevare dubbi, creare qualche mistero, indugiare sulle sfumature, raccontando frammenti di parziali verità, creando personaggi su sfondo grigio che raccontano, tutti e sempre ambiguamente, il proprio punto di vista, tutti intenti a difendersi, a insinuare, ad accusare, ma la verità, quella non c’è. Non è compito di un documentario provare una verità giudiziaria, ma magari seguire un punto di vista, indagare alcuni aspetti rilevanti trascurati, o anche solo andare a fondo nei ragionamenti o nel cuore delle persone coinvolte, questo dovrebbe esserci in un documentario. E invece non c’è nulla di tutto questo. Soprattutto non nel caso di Amanda.
Quel che Blackhurst and McGinn ci raccontano molto sommariamente è questo, fra interviste, telegiornali, qualche pittoresca ripresa di Perugia e stralci di un’Italia brutta, che grida e insulta fuori dal tribunale: una ragazza americana un pochetto squilibrata e non brillantissima, probabilmente innocente; un ragazzo italiano (Raffaele Sollecito, che su questo giornale abbiamo intervistato tre anni fa), probabilmente innocente anche lui, su cui è impossibile farsi un’opinione tanto è anonimo; un PM assolutamente inadeguato, sotto ogni aspetto, a condurre un’inchiesta su un caso come questo; un assurdo giornalista inglese belloccio che all’epoca fece lo scoop dell’anno per uno dei giornali peggiori e più letti del Regno Unito; un rancoroso avvocato che ha difeso l’unico condannato definitivamente e tutt’ora in carcere (anche se è stato stabilito che ad aver commesso l’omicidio erano in tre).
E quasi in chiusura, qualche parola della madre di Meredith, sconcertata dalla lunghezza del processo, tra ricorsi e appelli vari, e dal verdetto finale, che nel 2015 ha definitivamente scagionato Amanda Knox e Raffaele Sollecito, per mancanza di prove se non circostanziali, per negligenza nelle indagini e perché i media hanno in qualche modo inficiato tutto il contesto — le motivazioni della Corte di Cassazione a questo proposito sono queste: non hanno “certamente giovato alla ricerca della verità” il “clamore mediatico” dell’omicidio e i “riflessi internazionali” che la vicenda ha avuto, che hanno provocato una “improvvisa accelerazione” delle indagini “nella spasmodica ricerca” di colpevoli “da consegnare all’opinione pubblica internazionale” (a questo proposito, ma in tutt’altro contesto, è interessante l’articolo di Paul Farhi sul Washington Post sul ruolo dei media)
Ah sì, nel documentario a un certo punto compare anche Donald Trump, in un’intervista a una televisione americana di alcuni anni fa, in cui sostiene che il presidente degli Stati Uniti doveva intervenire nel processo e che bisognava in tutti i modi boicottare l’Italia.
Ma questa è poco più che una nota di colore. Il dramma alla fine di tutto è che una ragazza è stata uccisa, e nemmeno questo documentario le ha in nessun modo reso giustizia.
Guarda il trailer di Amanda Knox: