Andare a dormire con le prime immagini della strage di Nizza negli occhi e svegliarsi nel cuore della notte per guardare le ultime notizie, chiedendosi di quanto è cresciuto il bilancio delle vittime, attanagliati da alcuni interrogativi: siamo veramente così vulnerabili e impotenti? Come si è arrivati a questo?
La Francia colpita a morte ancora una volta, in una data dall’inequivocabile valore simbolico che fa dell’attentato una dichiarazione politica precisa: il 14 luglio, il giorno della presa della Bastiglia in cui celebrano e festeggiano gioiosamente i valori universali, affermati per il bene di tutti (anche di coloro che la colpiscono), di libertà, uguaglianza, fraternità. Oggi è l’aggettivo “universale” la chiave di tutto. Non è stata colpita “solo” la Francia, non è stato colpito solo l’Occidente, siamo stati colpiti tutti. Tutti coloro che rifiutano il cosiddetto scontro di civiltà. Abbiamo alcuni punti di riferimento solidi a fare da bussola, prima di tutto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la laicità degli stati di diritto, le costituzioni democratiche: che sono il prodotto di un lungo percorso storico fatto di lotte e sacrifici anche in termini di vite umane.
Ma la sconvolgente vulnerabilità disvelatasi questa volta più che mai (a terra sono restate decine di bambini feriti o uccisi) pone questioni profonde che non possono certo essere risolte dai sentimenti di profondo sdegno, e sgomento, e rabbia che ci pervadono in questo momento.
Dove stiamo fallendo? Stiamo utilizzando strumenti interpretativi palesemente inadeguati a questa deriva — ma forse sarebbe meglio dire affermazione — del fenomeno jiahdista in atto in questi anni: ed è solo da un’interpretazione corretta che può discendere un’azione articolata di prevenzione e contrasto appropriata. Un’azione che deve essere prima di tutto culturale, oltre alla creazione di un vero coordinamento di intelligence a livello internazionale (l’Europa unita davvero per una volta) e a un più incisivo dispiegamento di forze specializzate ove necessario.
C’è poi l’enorme problema, anche questo pre-politico, della evidente pochezza culturale della classe politica, e in generale dirigente, dei paesi occidentali (con le dovute eccezioni che confermano la regola).
Sul piano culturale, proprio in Francia in particolare, alcuni episodi hanno messo in evidenza negli ultimi anni i pericoli legati a un nuovo conformismo, al perbenismo di un malinteso politically correct che in realtà rischia di tradursi in doppiopesismo.
La più nota è la vicenda legata a Sottomissione, libro di Michel Houellebecq uscito in Francia nel gennaio del 2015, lo stesso giorno della strage di Charlie Hebdo, che ha suscitato feroci polemiche. In un romanzo di fantapolitica ambientato in un futuro così prossimo da essere estremamente simile al presente (il 2022), l’autore immagina che grazie, da un lato, all’alleanza elettorale tra un partito progressista e un partito islamico moderato per emarginare il Front National di Marine Le Pen, e dall’altro in seguito alla massiccia presenza finanziaria dei paesi arabi in grado di comprare anche la Sorbona, la Francia progressivamente si islamizzi. Espulsione delle donne dal mondo del lavoro, instaurazione della poligamia, maschilismo retrogrado, antisemitismo con fuga degli Ebrei francesi in Israele e così via.
Lo scrittore è stato accusato di islamofobia, tuttavia a uscirne malissimo sembrano essere francamente l’Europa, raffigurata in preda a una esiziale debolezza culturale che le impedisce di riconoscere le minacce illiberali a meno che non vengano dall’estrema destra, e in particolare il maschio europeo (prontissimo ad accettare una restaurata supremazia maschile). La lettura del romanzo risulta a tratti devastante, per la capacità dell’autore di utilizzare fatti reali del presente come segnali di sviluppi futuri.
C’è poi il caso dello scrittore algerino Kamel Dahoud, vincitore del Premio Goncourt nel 2015 con il romanzo Il caso Mersault (omaggio e replica allo Straniero di Camus). In seguito ai suoi articoli su Le Monde e The New York Times, in cui da musulmano liberale ha criticato dall’interno molti aspetti dell’Islam (in particolare il rapporto da lui definito “malato” con le donne) e l’interpretazione wahhabita su cui si regge l’Arabia Saudita, è stato colpito da una fatwa: ma la notizia è il fatto che in seguito sia stato accusato di islamofobia e razzismo e per così dire scomunicato dall’intellighenzia progressista francese. Ha pertanto deciso di tacere, di smettere di scrivere. Con gravissimo danno per il dibattito culturale.
L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è spegnere le voci più consapevoli della complessità e contraddittorietà del momento storico che stiamo vivendo. E si deve poter parlare di tutto, senza eccezioni, senza tabù, si deve poter discutere e litigare, essere in disaccordo e magari cambiare idea: perché una società resti viva, e sana, e possa reagire.