Il 12 settembre Expo ha registrato il suo record di entrate: 244.994. La settimana dal 7 al 13 settembre ha avuto 1.114.558 di accessi. Fino ad oggi quasi sedici milioni di persone hanno varcato l’entrata dell’esposizione. A conti fatti, Expo è un successo oppure no? Sta rispettando le attese? Il traguardo per il successo è stato stabilito da tempo in 20 milioni di biglietti emessi. A sette settimane della chiusura, con il tempo più fresco e iniziative che si intensificheranno, la cifra sarà presumibilmente superata e si parlerà di gran successo. Polemiche o meno.
Tuttavia, parlando con i milanesi, in particolare con i tassisti, questo successo non appare tale: poche corse rispetto alle aspettative, dicono. Sarà che noi italiani abbiamo l’abitudine di lamentarci o che ci illudiamo che arrivi qualcosa a cambiarci la vita, il che puntualmente non accade, se non a qualche fortunato vincitore di lotterie.
Ma veniamo al mio ultimo viaggio ad Expo, dove ho scoperto quanto può costare (molto caro) sbagliare entrata. Il taxi dal centro di Milano mi porta all’entrata Sud, ma io devo entrare attraverso la porta Ovest, dove si ritirano i pass per la stampa. È una di quelle giornate così calde che si rischia di finire come il tennista Jack Sock agli US Open, collassato. Penso: a piedi saranno al massimo due chilometri, con il taxi dovrebbe essere piuttosto rapido. Ed invece inizio una corsa che non sembra finire mai, dentro Rho tra dedali di strade urbane e superstrade, e alla fine spendo più del doppio del viaggio dal centro di Milano: a quel punto conveniva comprare un biglietto ex novo, sarebbe stato più economico.
Raggiunta la porta Ovest e finalmente nella confortevole sala stampa, sono pronto, seppur in gran ritardo sulla tabella di marcia, per la visita ai padiglioni italici. Mentre di quello italiano abbiamo già parlato, quest'ultima visita è dedicata a ai padiglioni di quei paesi che hanno una forte presenza italica, presenza che ha contribuito al loro sviluppo socio-economico e culturale.
Questa volta utilizzo la navetta che gira perimetralmente: la consiglio fortemente per chi vuole risparmiare tempo ed energie. Visito il padiglione della Santa Sede, dell’Uruguay, dell’Argentina (quello del Brasile, da quelle stesse parti, lo salto a piè pari: la fila è lunghissima per quella che appare come un’attrazione ludica, una grande rete elastica sulla quale camminare), proseguo con gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, Belgio e Venezuela. Aggiungo poi, ma solo perché non c’era coda, Israele e Kuwait.
Il problema numero uno è, in effetti, la coda ai padiglioni. In alcuni casi, per quelli più richiesti, si raggiungono anche le due ore: vedi padiglione Italia. La fila è lunga anche per quello della Germania, ma (solo in questo caso mi è accaduto) gli operatori mi dicono che come giornalista ho il diritto di passare avanti.
Negli altri per fortuna la fila è sopportabile. Come nel caso del padiglione Uruguay, circa venti minuti nei quali si attende indossando gli occhiali 3D Gear Samsung. La definizione non è ottima, ma la sensazione di volteggiare in cielo tra distese di nuvole bianche è molto potente. L’Uruguay, sembra, nelle descrizioni apposte sui rulli da far scorrere manualmente, una sorta di Svizzera del Sud America. Dentro si assiste ad un video realizzato su schermi tenuti da braccia robotiche che circondano il pubblico, che racconta la storia del paese attraverso quella di una famiglia. Questa famiglia è di origine italiana. Un paese che nasce con l'emigrazione italiana: nel video la mamma prepara gli spaghetti per tutta la famiglia. E quando il bambino cresce, in un paese che cambia, e diventa nonno, tramanda quegli stessi valori alla nipotina. Life grows in Uruguay e il motto – ma gli spaghetti, ci verrebbe da dire – resta.
Anche il padiglione argentino, formato da silos allineati, seppur molto incentrato sulle tecniche di produzione e raccolta alimentare, dedica nei suoi contenuti audio-video, simulatori, sistemi interattivi, spazi multisensoriali, una parte all’emigrazione italiana come determinante nella costruzione dell’identità del paese.
Sul padiglione della Santa Sede non sono mancate le polemiche per via delle spese sostenute. Sembra, come riporta molta della stampa italiana, che Papa Francesco si sia adirato per i tre milioni spesi. In ogni caso il messaggio appare forte e non possiamo non scorgere quanto l’universalità che viene trasmessa sia parte integrante della cultura italica: solidarietà, condivisione e convivialità. L’interno rimanda ad una chiesa nella quale si sono alternati due capolavori pittorici: per i primi tre mesi, L’ultima cena del Tintoretto, nei tre successivi l’arazzo con L’istituzione dell’Eucarestia di Rubens. “Non di solo pane” è il motto che si ripete sugli schermi e definisce il percorso espositivo vaticano, tra fotografie e brevi film che mostrano volti e situazioni di sofferenza. C'è poi un tavolo interattivo che simboleggia il valore del tavolo stesso nella nostra vita quotidiana: per mangiare, ovviamente, ma anche per lavorare, studiare, creare, vivere. Appena ci si appoggia al tavolo due mani iniziano a muoversi, impegnate in qualche mansione. Più persone sono presenti e più il tavolo prende vita dando l’idea dell’importanza dello stare insieme intorno, appunto, ad un tavolo.
Negli altri padiglioni i segni italici svaniscono. Quello americano e tedesco provano a stare dentro al tema di EXPO: Nutrire il pianeta, Energia per la vita. Entrati negli USA, Barack Obama, attraverso uno schermo, accoglie i visitatori dentro a quella che appare una ricostruzione di un granaio, sciorinando obiettivi e cifre del lavoro svolto. Per raggiungere il padiglione si transita su di una passerella in legno recuperato che proviene dal lungomare di Coney Island. Oltre al presidente americano ci aspettano un’imponente video-installazione, aree espositive interattive, una terrazza panoramica, spazi per i VIP e per la vendita al dettaglio. Come sempre, i lobster roll erano finiti: è uno dei panini più richiesti di Expo. Chissà, se lo avessi mangiato forse avrei trovato il padiglione meno deludente.
Sensazione di delusione anche per quello francese. Da segnalare però il bel giardino che accompagna il percorso verso l’entrata, che riproduce tre paesaggi agricoli. Alla fine si giunge ad una sorta di grotta costituita soprattutto di legno lamellare che copre 3.592 metri quadrati. L’ispirazione viene da quello che è un luogo simbolo della cultura gastronomica francese: il mercato coperto.
Infine, il padiglione tedesco. Forse tra i più interessanti. Ben strutturato, con informazioni facilmente riconoscibili e che ben rispondono al tema principale. Forse tra i pochi che ha preso seriamente gli obiettivi di EXPO 2015. Grandi tecnologie e semplici da usare: indimenticabile l’ombrello interattivo. Da provare. Non riesco a fare il volo sopra la Germania, dalla prospettiva di un’ape: il tempo a mia disposizione sta per scadere e c’è un treno da riprendere. Mi avvio verso l’uscita, cerco en passant altri segni italici. Vendono del gelato presso il padiglione della Bielorussia. Guardo bene i gusti. Trattasi di vodka. Lascio perdere, non vorrei prendere il treno sbagliato.